Sembra passato un secolo, ma non sono neanche due mesi: ricordate che il 20 e il 21 settembre c’è stato il referendum sul taglio dei parlamentari? Ben 17 milioni di italiani hanno votato per ridurre il numero degli eletti – 345 in meno tra deputati e senatori – con due argomenti principali: l’idea che un parlamento più piccolo sia più efficiente (mai dimostrata, ma c’è anche chi crede all’oroscopo) e l’occasione di risparmiare.

Cifra più simbolica che rilevante, circa 52 milioni all’anno tra stipendi, contributi e diarie, ma meglio che niente, dicevano i sostenitori del referendum particolarmente sensibili ai costi della “casta”.

Delle riforme promesse per rendere il parlamento più efficiente o almeno in grado di funzionare in versione ridotta non ce n’è traccia. Della legge elettorale non si hanno più notizie, neanche del ridisegno dei collegi e della modifica dei regolamenti parlamentari. Ma c’è la scusa della pandemia, ci sono altre priorità (per votare l’emendamento utile a proteggere Mediaset dalle rivendicazioni del socio francese Vivendi però  tempo e voti si sono trovati). Per sprecare milioni, invece, di scuse non ce ne sono.

Il quotidiano Il Tempo ha notato un dettaglio in una delle ultime bozze della legge di Bilancio. L’articolo 195, senza ulteriori spiegazioni, ha una dicitura che colpisce di questi tempi “Esigenze del parlamento” e prevede lo stanziamento di 800 milioni di euro per il 2021 e poi 400 milioni all’anno dal 2022. Per sempre, cioè si tratta di una spesa strutturale.

Gli italiani votano per tagliare di 52 milioni all’anno il costo delle Camere e il governo lo aumenta di 800 per un anno e poi di 400 annui da quello successivo. Il tutto senza dibattito, senza comunicazioni, senza neppure una spiegazione accanto allo stanziamento. Bel risultato.

Ma a palazzo Chigi sono furbi e ascoltano gli umori del “popolo”. Dopo che Il Tempo ha sollevato il caso, ecco che arriva la nuova bozza della legge di Bilancio (da notare: la politica economica si fa così da tempo, una sequenza di bozze scritte non si sa bene da chi ed emendate da altre mani senza padrone). Nella nuova versione la spesa è rimasta, ma è cambiato il nome e la nuova dicitura, conoscendo quella precedente, sembra quasi una provocazione: “Fondo per le esigenze indifferibili”.

Come sempre il testo della norma è incomprensibile: “Il fondo di cui all’articolo 1, comma 200, della legge 23 dicembre 2014, n.190, è incrementato di 800 milioni di euro per l’anno 2021 e 400 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2022”.

Se risaliamo a quella legge del 2014, scopriamo che questi soldi sono gestiti direttamente da palazzo Chigi, senza alcun vincolo nell’utilizzo, servono “per   far   fronte   ad   esigenze indifferibili che si manifestano nel corso della gestione”. Ma all’epoca si trattava soltanto di 25 milioni. Adesso salgono a 800 e poi a 400.

Da qualche anno la legge di Bilancio ha smesso di essere l’atto più importante gestito dal parlamento per diventare un provvedimento di governo, imposto con voto di fiducia a Camere che spesso non hanno neanche il tempo di leggere il testo, figurarsi di emendarlo o discuterlo. Quindi è discutibile il metodo, ma ancor peggio il contenuto, cioè che palazzo Chigi si attribuisca fondi per centinaia di milioni di euro privi di ogni vincolo, utilizzabili a discrezione del presidente del Consiglio.

Tutti gli elettori dovrebbero chiedere a Conte e al suo ministro Roberto Gualtieri di spiegare questa mossa rapace, ma dovrebbero farlo soprattutto quei 17 milioni di italiani che sono stati disposti a sacrificare 145 dei propri rappresentanti in nome del risparmio di cifre molto inferiori.

Come per tutte le battaglie populiste, prima o poi arriva il confronto con la realtà. E la realtà pare che il voto di settembre è servito ad appagare pulsioni anti casta care al Movimento Cinque stelle ma non a ridurre i costi della politica. E ora gli anonimi estensori della legge di Bilancio tra palazzo Chigi e ministero deridono anche quell’ansia da risparmio togliendo, da una bozza all’altra, il riferimento alla destinazione ultima di quegli 800 milioni, con le esigenze “del parlamento” che diventano semplicemente “indifferibili”.

Sulla base di quello che sappiamo ad oggi, dovrebbe trattarsi di un fondo che viene messo a disposizione del parlamento – cioè della maggioranza – per decidere misure specifiche di spesa.

Una pratica che è in contraddizione con tutti i principi di una sana politica economica, perché la legge di Bilancio dovrebbe servire a stabilire le direttrici del bilancio pubblico, non a fissare le piccole spese, quali sono inevitabilmente quelle che si ottengono frammentato 800 o 400 milioni. Micro spese è un sinonimo di mance clientelari, ovviamente. 

E’ un premio di consolazione: poiché il parlamento viene di fatto escluso dalle decisioni su un provvedimento complessivo che vale 38 miliardi, potrà almeno esprimersi su come destinare 800 milioni. 

E’ chiaro che non sono due grandezze esattamente comparabili, la spesa per il funzionamento del parlamento tagliata (forse) dal referendum di settembre e i 400-800 milioni di euro stanziati ora dal governo con questo bizzarro fondo che passa da palazzo Chigi prima di trasformarsi in mance parlamentari. 

Ma i veri costi della politica non sono gli stipendi degli eletti, bensì quelli delle decisioni sbagliate o pericolose che prendono nell’ambito del loro mandato. Quei 400-800 milioni di euro vanno decisamente considerati come costi della politica, quasi certamente sprechi. 

I deputati e i senatori del Movimento Cinque stelle, ma anche quelli del Pd formalmente schierati per il taglio dei parlamentari, potranno votare una simile presa in giro? Domanda retorica, la risposta è scontata. 

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