Dato e non concesso che, approfittando della lunga parentesi che il governo Draghi offre loro, i partiti italiani abbiano deciso di mettersi all’opera per ristrutturare la politica, le elezioni amministrative sarebbero il livello miglior da cui partire. 

Certo, le generalizzazioni sulla base dei dati ricavabili dalle inchieste giornalistiche sono rischiose, ma non mi pare di avere colto segnali che vadano nel senso giusto. Il centro-destra ha preferito affidarsi a non sperimentati candidati civici nelle cinque maggiori città. Così facendo ha segnalato, più o meno consapevolmente, che non può fare affidamento su una classe politica competente e competitiva a livello locale. Forse anche che preferisce vincere, se avverrà, con candidati che, privi di una loro personale base politica, saranno più facili da controllare.

Quei candidati “civici” poi si sono semplicemente caratterizzati come tali perché non hanno fatto politica in precedenza, non per qualche merito, qualche dote, qualche proposta, meno che mai di effettiva rappresentanza della società (la città) meglio di quanto saprebbe fare un buon consigliere comunale con qualche anno di esperienza.

Il Partito democratico ha scelto, invece, di fare affidamento sui “politici” (a Napoli, Manfredi, già ministro, entra in questa categoria). Difficile, però, dire se quelli di loro che diventeranno sindaci si dedicheranno anche al compito di ricostruire la politica o decideranno di rimanere nella continuità, in solchi già tracciati, per esempio, a Torino e sicuramente a Bologna.

Naturalmente, un vero rinnovamento della politica passa per il reclutamento, la presenza, l’attività dei moltissimi consiglieri comunali e degli assessori. Di questi ultimi, al momento non è possibile dire, anche se alcune delle personalità i cui nomi vengono fatti circolare sembrano rispondere a male interpretate esigenze del “teatrino della politica”, cioè allo sfruttamento della loro previa popolarità.

Quello che mi pare più preoccupante è che la maggior parte dei candidati/e consiglieri non abbiano una idea chiara sul ruolo che andranno a ricoprire e sull’attività che dovranno esplicare.

Chi vince

Per mio interesse politico, per capirne di più ho frequentato alcune assemblee dove candidati e candidate si presentavano per cercare di ottenere i voti di preferenza indispensabili per la loro elezione. Partono avvantaggiati tutti coloro che hanno una associazione professionale alle spalle.

Spesso entrano, come si dice, in lista proprio perché sponsorizzati da quella associazione che poi li farà votare dai suoi iscritti (e dalle loro famiglie). Facendo campagna elettorale un po’ tutti si impegnano a “ascoltare” quello che gli elettori desiderano.

Pochi sono gli elettori che dicono di non accontentarsi dell’ascolto, ma di volere una interlocuzione, uno scambio di idee, un surplus di informazioni.

Nessuno, poi, prende atto che, una volta entrati nel Consiglio comunale, i consiglieri dovranno agire disciplinatamente a sostegno del loro sindaco (al quale sono debitori dell’elezione se fanno parte del premio in seggi) e della loro giunta, oppure della opposizione, più spesso delle opposizioni frammentate e automaticamente deboli.

Dopodiché ascolteremo critiche alla legge vigente che relegherebbe i consiglieri a un ruolo molto subalterno, costringendoli soltanto a votare i provvedimenti della giunta e poco più.

 A mio modo di vedere, sono i consiglieri che sbagliano nella definizione e nella interpretazione del loro ruolo. Dovrebbero, piuttosto, magari ricordandosi della promessa di ascolto fatta in campagna elettorale essere/diventare il tramite fra gli elettori, il Consiglio nel suo insieme, e la giunta.

Dovrebbero informare e informarsi, spiegare e “insegnare”, insomma fare davvero politica: aggregare consenso per cambiare. In questo modo, forse, i partiti ne saprebbero di più e la (loro) politica potrebbe ristrutturarsi. Purtroppo, non mi pare di avere visto e colto segni promettenti.

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