Nelle scuole di management insegnano che i processi decisionali vanno non vanno analizzati sulla base dei risultati, ma della coerenza interna. Il finale può dipendere da mille variabili, fuori dal controllo del manager, anche eventi improbabili (positivi o negativi) ogni tanto possono realizzarsi. Ma questo non significa che la strategia a monte fosse sbagliata.

Proviamo a fare lo stesso esercizio per queste elezioni amministrative, guardiamo alle mosse dei protagonisti prima di essere influenzati dai risultati.

Nel centrodestra dominato dalla Lega, Matteo Salvini ha scelto di usare comunali e regionali come regolamento di conti con gli altri partner. Stretto tra Silvio Berlusconi che vorrebbe il partito unico con Forza Italia, e Giorgia Meloni che lo insidia a destra, Salvini ha rinunciato a cercare una sintesi e ha favorito candidati scelti per accontentare l’anziano patriarca di Arcore (in Calabria, ma non a Milano) e per frenare le ambizioni di Fratelli d’Italia, quasi auspicando la sconfitta di Enrico Michetti a Roma.

Anche al netto del caso di Luca Morisi, Salvini non è già più il leader di un centrodestra che ora deve scegliere se guardare al centro dove aspetta, solitario, Matteo Renzi oppure compattarsi intorno a Meloni, a sua volta provata dalle rivelazioni sulle frange estremiste e forse criminali del suo partito (chi l’avrebbe mai detto…).

A sinistra gli entusiasmi sono un po’ eccessivi. Il segretario del Pd Enrico Letta ha legato la sua leadership a un’elezione supplettiva minore, a Siena, che a sua volta sottintende fragilità: Letta vuole essere in parlamento quando si vota il capo dello Stato, da fuori teme di non controllare i suoi.

Quanto al resto, il Pd, ha rinunciato sia a una vera sintesi con i Cinque stelle (a parte a Napoli), sia ad allargare il suo bacino di consensi potenziali.

A Bologna ha piegato la ribellione dei renziani, senza credere davvero che Italia viva sia un asset della coalizione. Beppe Sala è l’unico che ha provato, a Milano, a intercettare nuove sensibilità ambientaliste, ma è mezzo fuori dal Pd. A Roma il partito ha candidato la seconda scelta, Roberto Gualtieri, dopo il rifiuto di Nicola Zingaretti, e ha impostato una campagna sul ritorno a un passato non poi così rimpianto.

Carlo Calenda sarebbe stato un candidato più capace di sfondare al centro, ma di fronte al bivio tra consolidare il voto di appartenenza (ideologica e clientelare) e perseguire quello di opinione con programmi e idee nuove, il Pd romano ha scelto il primo. E Calenda ha riempito piazza del Popolo di voti sottratti ai partiti di centro sinistra, mentre Gualtieri inseguiva Virginia Raggi nelle periferie.

Il valore aggiunto da Giuseppe Conte ai Cinque stelle è imperscrutabile: fuori dalla piazza nessuna visione, nessun messaggio, se non una certa arroganza non più nascosta dalla pochette. Anche le sue ambizioni di guidare di una coalizione giallorossa permanente sono già tramontate.

Queste sono le prime elezioni dell’era Draghi, ma sembrano soprattutto le ultime di una fase precedente, con progetti e leader a fine di un ciclo. Per dirla con l’espressione in voga tra i no-vax, sembra la vigilia di un “grande reset”.

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