La conoscenza storica è una scienza, e come tutte le scienze non è innocente. Come gli scienziati saltano ideologicamente le aporie atomiche o razziste della loro storia, così gli storici tendono a dimenticare che sono salariati dello stato nazionale, ai quali talora (come da noi, per Costituzione) garantisce “libero l’insegnamento” in una dialettica col dovere di formare gli insegnanti e i ricercatori di domani, dotandoli di strumenti, metodi, impianti, culture.

Quando l’indebolimento dello stato nazionale attenua questo nesso la conoscenza storica evapora e accadono due cose che in Italia vediamo bene.

La prima è che la storia professionale, frammentata da arroganze e micraniosità, cede il passo a giornalisti volonterosi, convinti che la storia sia come una melodia ovvia, che deve solo essere trascritta, armonizzata, orchestrata per diletto pubblico.

La seconda è che nella bassa marea di una storiografia le cui corporazioni ricalcano il sussidiario degli anni Cinquanta (romana, medievale, moderna, contemporanea, letteratura, arte, musica e religione facoltativa) gli unici scogli sicuri a cui appigliarsi rimangono gli anniversari. Quelli che il tempo fornisce dotandoci di decennali delle morti di figure “di cui non potremo fare a meno” di qualsivoglia mestiere siano stati periti.

E poi gli anniversari dei fatti storici, non più divisi per spanne centenarie, ma ridotti a ventennali, i quarti di secolo, tutti in grado di consentire ai “ragazzi di allora” di spiegare che pur avendo torto avevano ragione, o che pur avendo fatto il male vanno amati perché ne sono ancora tormentati, o che erano il fior fiore di una meglio gioventù uccisa da Andreotti o dagli Amerikani (in mancanza d’altro gli Usa e il Divo funzionano sempre).

Una riprova? Le celebrazioni del 50° della legge 898 del primo dicembre 1970 sul divorzio: vittoria di una oleografica Italia laica liberal-socialista che premeva il parlamento da fuori quando Gianroberto Casaleggio aveva 16 anni, in una Italia a mezza via fra lo Statuto dei lavoratori e il golpe Borghese.

La libertà delle donne

Scarsi, in questa festa della legge Fortuna-Baslini, i riferimenti ai pochissimi divorzi messi in opera quando 215 anni fa (è un anniversario?) l’istituto del divorzio calò sull’Italia insieme al codice napoleonico; quasi nessun omaggio per l’eroe mazziniano Salvatore Morelli; poco o nulla per il disegno di legge di Zanardelli d’inizio Novecento che includeva con lungimiranza le “sevizie” fra le cause di divorzio e che venne battuto in parlamento, da una convinzione ben più antica del cristianesimo: quella che riteneva l’istituto irricevibile non rispetto alla famiglia, la cui separazione era recepita da secoli nel diritto canonico, ma rispetto alla “quantità” di libertà che consegnava alla donna, alle donne.

Amintore Fanfani coglieva questo nodo in quella che sembrava un battuta volgare: «Votate il divorzio e vostra moglie scapperà con la serva». E con una iperbole caricaturale coglieva meglio di Pannella il soggetto ultimo di quella misura che sanava non «il matrimonio mal assortito» (come definivano le enciclopedie cattoliche del primo Novecento le famiglie da separare), ma una concezione del matrimonio come cifra della subalternità femminile.

Era quella concezione che aveva scritto nel magistero cattolico la famiglia come «prima cellula della società»: formula poi raddolcita da un organicismo sociale, ma che per il papato fra Otto e Novecento indicava in quella cellula del corpo sociale il luogo in cui si realizzava la sottomissione archetipa della donna all’uomo, senza la quale sarebbe venuto meno il principio di autorità che regolava l’ordine giuridico e politico.

Quella concezione era stata scossa dal Vaticano II non da una onda libertaria, ma da una discussione alla fine della quale era rimasto saldo il principio che il fine del matrimonio è la riproduzione, ma era entrato anche l’amore come bene peculiare, fuori dai fini di una logica contrattualistica in nome di una istanza evangelica che avrebbe avuto bisogno del papa argentino per farsi largo.

Un ripensamento conciliare che allora, nel 1970, non avrebbe mutato la posizione parlamentare della Dc, ma che avrebbe inciso su quella parte di cattolicesimo che quando arrivò il referendum votò contro l’abrogazione della legge e lo fece prevalere, pagando talora prezzi non banali.

Paolo VI si era chiesto se avallare l’ipotesi di un referendum in cui chiamare «i cattolici a una prova di inutile eroismo» (sic!): e alla fine, come dimostrano i diari del segretario generale della Cei che allora parlava col papa, aveva accettato la scommessa di Fanfani che vedeva la sopravvivenza della Dc nel renderla protagonista di una saldatura non integrista con la chiesa, e che, battuto, cedette il passo al ben più complesso disegno di Moro di un allargamento della base democratica dello stato saldando consenso dei partiti di massa e dinamica parlamentare. Persero tutti.

Restò una legge che, come dimostra il numero dei femminicidi, ha appena scalfito una cultura che può essere erosa rimpiangendo i tempi di una epopea imprecisa, ma accettando che quella storia non si capisce dicendola “complessa”, non si semplifica introducendo banalità con “in sostanza”: si capisce insegnandola bene, studiandola bene e riconquistando un dialogo civile fra ricerca e coscienza collettiva in cui tutti gli attori (la Rai, il teatro, le biblioteche, le università, la scuola) facciano con pazienza e costanza il proprio dovere.

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