Esito del colossale fiasco afghano, da settimane è in corso in Italia un dibattito sulla guerra che profila una condanna dello strumento militare: a ricorrervi si fanno solo danni, dice il nuovo senso comune.

Di conseguenza risulta nefasta anche l’idea che, ove sia possibile, le democrazie possano intervenire con mezzi muscolari per difendere i più elementari diritti umani: occorrerà invece affidarsi al dialogo e al convincimento, essendo la “soluzione politica” l’unica strada percorribile. Per quanto mosso da sentimenti rispettabili questo verdetto sconta un peccato originale: come spesso i dibattiti italiani, è fondato su un equivoco.

Le antinomie assolute su cui si basa questo ragionare semplificano troppo la realtà. Pace oppure guerra, intervento armato oppure intervento diplomatico, soluzione militare oppure soluzione politica, sono alternative drastiche che hanno poco senso nel mondo contemporaneo, dove invece prevalgono soluzioni e situazioni ibride. Ciò che preferiamo chiamare “pace” spesso altro non è che la maschera di guerre combattute dalle tirannidi contro minoranze: agli occhi di una ragazza afghana, di un hazara, di un tagico, «i sei anni di ordine e di pace» che, apprendiamo dal Fatto Quotidiano, i Talebani regalarono all’Afghanistan fino all’invasione americana, furono un periodo di combattimenti feroci e di repressione brutale.

In questo e in tanti altri casi “pace” è un artificio retorico in uso presso società satolle e sicure. Sta per “violenze massive che non vogliamo vedere”, o anche “condizione nella quale le vittime sono costrette a sperare che una guerra le liberi dall’oppressione”.

Guerre che portano la pace

Ci sono paci che ammazzano più di una guerra e guerre che spengono altre guerre. Dove non resta alcuno spazio per un compromesso tra i belligeranti, talvolta un conflitto può essere fermato solo da un mix di strumenti militari e strumenti negoziali. Per esempio l’attacco americano in Bosnia. L’Europa assiste per tre anni e mezzo allo sterminio, finché gli americani impongono la pace con una settimana di bombardamenti in parallelo a un’intensa pressione diplomatica.

La difesa dei diritti umani non era il primo obiettivo dell’amministrazione Clinton, prova ne sia che in quegli stessi giorni tacque sulla “pulizia etnica” della Krajina serba condotta dall’esercito croato. Ma al netto di quella nefandezza resta il fatto che fu la sinergia tra diplomazia e bombardieri a portare la pace lì dove ammonimenti europei e mediazioni Onu avevano fallito. Non fu forse quella la ”guerra giusta” che Karol Wojtyla arrivò quasi a invocare? Eppure ora si ripete che la “guerra giusta” non esiste. Dovremmo concludere che “giusto” sarebbe stato continuare a non interferire: levare severi moniti, commuoverci, mandare cerotti, però lasciando che Serbia e Croazia si ritagliassero il loro pezzo di Bosnia con altre “pulizie etniche”. A quante Srebrenica avremmo dovuto assistere se l’aviazione americana non ci avesse risparmiato l’imbarazzo?

Nel dibattito in corso l’intervento Nato in Bosnia non viene mai citato perché basterebbe quell’esempio per mandare in pezzi il mantra che risuona in questi giorni: qualsiasi intervento militare aggrava il conflitto, essendo le armi instrumentum diaboli; e chi sostiene il contrario, aggiungono gli zelanti, è piazzista dell’industria bellica o spia della Cia. Si fa riferimento invece ad altre guerre occidentali, tutte per un verso o per l’altro fallimentari. Ma chi le studiasse scoprirebbe che il fiasco non era sempre scritto nel loro destino. Se per esempio la Nato avesse offerto a Gheddafi una via d’uscita quando ormai il suo esercito non era più in grado di contrattaccare, forse oggi non ricorderemmo quella guerra come la premessa del disastro attuale. E se gli americani non fossero stati accecati dalla war on terror, forse il mullah Omar, sconfitto, avrebbe accettato la resa dignitosa che Karzai provò a negoziare (ma Washington rifiutò).

Gli errori in Afghanistan

In altre parole, ricorrere alle armi non è una scelta che conduce automaticamente al disastro. Nel caso afghano questo invece è stato il risultato semmai di nostre clamorose inettitudini, riconosce con spietata onestà l’ultimo rapporto Sigar, l’ispettorato statunitense per la ricostruzione dell’Afghanistan.

Se ne può ragionevolmente concludere che i sistemi-paese occidentali al momento non sono minimamente in grado di affrontare imprese di quella portata, causa pochezza delle classi dirigenti e limiti culturali. Ma se il Sigar questo grossomodo lo ammette, gli europei preferiscono considerare il fiasco afghano come inevitabile, oppure attribuirne la colpa innanzitutto agli indigeni. Se non si ragionasse così anche in Italia non ci nasconderemmo di aver contribuito alla vittoria dei Talebani con la riforma dell’ordinamento giudiziario afghano, in cui svolgemmo un ruolo sostanziale. La giustizia che ne risultò fu così lenta e costosa (dunque inevitabilmente corrotta) che gli afghani preferirono affidarsi ai consigli degli anziani e alle corti volanti offerte dai Talebani, due mullah in motocicletta che garantivano verdetti rapidi e quasi gratuiti. La riforma aveva una sua eleganza: ma era pura illusione pensare di far nascere d’incanto uno stato di diritto liberale in un paese poverissimo da quarant’anni in guerra, e senza neppure abbozzare un percorso che offrisse un minimo di giustizia alle infinite vittime di crimini commessi dalla polizia e dall’esercito afghano, per non dire dei marines. Su un quotidiano che ha sfiorato l’argomento abbiamo letto che il fallimento fu colpa di Karzai, non colpì la corruzione dei magistrati, e questo modo di cavarsela incolpando gli indigeni è tecnica che unisce destra e sinistra. Si vuole che il vizio di fondo della guerra ai Talebani sia stato l’ambizione di “esportare la democrazia”, operazione data per impossibile soprattutto se il recettore è un popolo come quello: islamico, venale, privo di senso dello stato, calabraghe per deficit di patriottismo. Questa rivisitazione dell’infido afghano coglie alcuni guasti prodotti dalla storia ma omette caratteri positivi che neppure quarant’anni di caos sono riusciti a cancellare.

Ribaltandone l’essenzialismo neocoloniale potremmo dire che gli occidentali non hanno capito una verità elementare – occorreva modulare sulla disastrata realtà afghana tempi e modi della transizione verso una qualche sorta di democrazia costituzionale – e non l’hanno capito perché, con l’arroganza che perde potenti nazioni, non si sono nemmeno chiesti chi fossero quei barbari da condurre come gregge verso la civiltà.

Ambiguità e successi

Un altro esorcismo in voga consiste nell’assegnare ai Talebani la parte di patrioti (ne consegue che gli afghani a loro avversi, innanzitutto i profughi, sono traditori e servi dell’occupante). Questo argomentare rumoreggia soprattutto sulla stampa pentastellata o terzomondista, che denuncia giustamente i metodi disumani con i quali i Talebani spesso sono stati combattuti, ma rifiuta di soffermarsi sui metodi dei Talebani. Le loro vittime risultano un’umanità a perdere, secondaria, poco rilevante, dato che non trovano posto nello schema “gli afghani sconfiggono l’imperialismo”. Le donne, per esempio. Guarda caso il club di incapaci di empatia è tutto maschile; le colleghe acconsentono tacendo – per imbarazzo, per quieto vivere, per ignavia.

Se lo scopo è quello di delegittimare l’interventismo umanitario in qualsiasi forma (e per estensione indebita anche l’idea di una forza europea d’intervento rapido) suggerirei un modo più intelligente per tentare. Nessun governo al mondo si lancia in rischiose operazioni militari senza la prospettiva di trarne un vantaggio strategico o politico: la difesa dei diritti umani o l’esportazione della democrazia non sono mai l’interesse primario, anche quando si finge che lo siano. Una nuova dottrina militare europea potrebbe forse attenuare questa contraddizione tra sacro egoismo e sacrosanto altruismo, tra profitto e valori, tra particolare e universale, ma non riuscirà a eliminarla.

L’ambiguità resterà. Ma rimarranno anche alcune verità da non dimenticare: guerre lanciate per tutt’altri motivi possono produrre straordinari esiti umanitari (dopotutto gli Alleati non combatterono l’Asse per fermare i campi di sterminio); espandere l’area delle democrazie costituzionali è, per vari motivi, nel nostro interesse; di fronte a violenze disumane un pacifismo capace solo di predicare l’inazione, sia pure un’inazione agghindata nelle candide vesti della filantropia, non è meno letale del bellicismo guerrafondaio.

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