Da un po’ di giorni serpeggia una discussione sulla vocazione maggioritaria, secondo alcuni perduta o tradita, del Pd di Elly Schlein. La discussione riprende termini del Novecento più lontano, come “massimalismo” e idee di fine secolo, come quella che i partiti, per vincere, debbano rincorrere gli elettori al centro, soprattutto nei sistemi elettorali più o meno maggioritari. È stato osservato che in realtà massimalista è l’attuale governo e il mito della governabilità e che la presunta vocazione maggioritaria che il Pd dovrebbe avere non è servita a molto nel passato, e sicuramente non serve adesso, in condizioni politiche molto specifiche, che premiano più gli estremismi che le conciliazioni.

Queste sono osservazioni giuste e condivisibili. Ma c’è forse un livello ancora da cui guardare questa discussione. Una cosa che dovrebbe colpire dei tempi in cui viviamo, per esempio, è che le maggioranze elettorali (cioè quelle che, nei sistemi elettorali vigenti, esprimono il governo e non è detto siano maggioranze numeriche) votano per partiti estremisti (populisti e di destra). Il centro politico, inteso come stile politico di moderazione, teso alla conciliazione o rappresentanza di interessi diversi e magari opposti, è sempre meno vincente, almeno dal punto di vista elettorale. Forse per questo il Pd governativo e felpato, alla fin fine, non ha vinto, e questo potrebbe anche spiegare le alterne sorti di Forza Italia negli ultimi anni. Quel che vince è la rappresentanza – spesso urlata e fantastica, non sempre reale – di interessi ed idee estreme, che magari sono maggioritarie, ma di poco. Quel che vince è l’idea che le minoranze non debbano contare. Quest’idea ricorre in molte prese di posizioni che invocano l’idea di normalità. È una sorta di assioma populista: il popolo è una maggioranza, spesso non schiacciante nei fatti, ma percepita come tale, una maggioranza che ha idee e interessi netti, estremi, rudi, e che ha tutto il diritto di farli valere.

Se le cose stanno così, se quel che vince non è chi rincorre il centro, ma chi raccoglie maggioranze relative di estremisti, forse c’è una lezione da trarre, a livello di tattica e a livello ideale. A livello di tattica: contro maggioranze estremiste servono minoranze agguerrite, ed egualmente estremiste, che possono diventare maggioranze anche se non è affatto detto che ci riescano. Fuor di metafora: contro un governo che calpesta diritti civili e diritti sociali di minoranze l’unica via è difendere quei diritti e quelle minoranze, e farlo rumorosamente e, se serve, con un certo vigore. A livello ideale: la politica è certamente governo e gestione, ma è anche (e talvolta soprattutto) argine  morale e testimoniale contro l’abuso e l’arbitrio. Se le maggioranze sono oppressive, e sono animate dalla volontà di annientare i diritti delle minoranze, forse la vocazione maggioritaria bisogna abbandonarla proprio, per non essere complici. Fuor di metafora: contro un governo razzista, liberticida, sciovinista, anche la testimonianza pura è un atto dovuto, anche il richiamo che può sembrare isterico alle garanzie costituzionali è assolutamente necessario. Sciogliendo tutte le metafore: forse timidamente, forse con incoerenza, per intervalli, ma il PD di Schlein sembra proprio impegnato a trarre queste due lezioni dalla situazione difficile che la sinistra vive in questi anni. Come si diceva nel Novecento, l’analisi politica è corretta.

Ovviamente, tutto questo può significare che la maggioranza rimarrà tale a lungo e chi difende le minoranze non conquisterà le leve del potere presto e dovrà limitarsi per molto tempo a fare argine. Ma la politica non è il potere per il potere, l’ordine pur che sia – almeno non in certe concezioni. Fare argine, difendere minoranze che sono nel giusto, anche moralmente, è anche la missione della sinistra, quando le maggioranze scelgono, come in periodi bui, di abbandonarsi all’abuso e all’arbitrio. Questa vocazione minoritaria è parte della storia della sinistra, un’eredità da non perdere.

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