L’inquietante episodio degli insulti riservati ad un ragazzino ebreo dai suoi coetanei, riferito dal presidente della Comunità ebraica di Torino Dario Disegni, rivela, purtroppo, il punto di banalizzazione della Shoah a cui siamo giunti. Se ragazzini di undici anni possono dire ad un loro compagno «colpevole» di indossare la kippah «ebreo, un tempo ti avremmo bruciato», ci si chiede, come sottolinea Disegni stesso, «dove sentano certe cose e quale sia il ruolo delle famiglie».

Riscontrando anche un aumento dei casi di antisemitismo in tutto l’occidente, dobbiamo amaramente constatare la fine di quella che uno storico israeliano definì la moratoria di Auschwitz, che aveva reso tabù l’odio antiebraico, o, perlomeno, la sua esplicita manifestazione.

Una deriva che interroga a fondo un intero impianto pedagogico scandito da giornate della memoria, commemorazioni, viaggi ad Auschwitz, tutti elementi che, evidentemente, non sono stati capaci di sedimentarsi in un affetto. Riuscendo, piuttosto, a tramutarsi nell’opposto, con sempre più persone che chiedono perché si parli sempre e solo degli ebrei fra i tanti stermini di cui è cosparsa la storia umana e dello stesso occidente.

Sarà, forse, perché gli ebrei sono così potenti da orientare il sistema dell’informazione? Ed ecco che si torna immediatamente al punto di partenza.

In secondo luogo, però, questi episodi di «ordinario antisemitismo», ed ancora più se ad agirli sono dei ragazzini gioco forza eredi inconsapevoli di pregiudizi altrui, ci fa capire il grado di involuzione a cui sono giunte le nostre società tolleranti e democratiche, come insegnatoci una volta per tutte dal filosofo ebreo, francese di origini russe, Vladimir Jankélévitch.

In uno scritto degli anni Sessanta in cui prende posizione rispetto alla proposta francese di amnistiare i crimini nazisti, Jankélévitch afferma senza mezzi termini l’imprescrittibilità di Auschwitz.

Posizione ancor più forte se si tiene conto che la sua opera aveva, fino a quel momento, posto al centro il tema del perdono, sottolineando come assuma senso solo di fronte all’imperdonabile.

Dov’è lo sforzo del perdono nel perdonare il perdonabile? Se, però, continua il filosofo, quanto consumatosi ad Auschwitz, è riconosciuto come crimine contro l’umanità, non dunque riducibile a circostanze storiche determinate, come ancora si poteva dire, sempre secondo il suo argomento, del massacro degli armeni, prescriverlo vorrebbe dire rifiutare il valore universale dell’essere umano.

L’imprescrittibilità di Auschwitz

Osservando quanto sta avvenendo ai nostri tempi, dove ad una svolta identitaria sempre più diffusa corrisponde una relativizzazione della memoria della Shoah ai soggetti storici che l’hanno agita, dobbiamo dire che l’intuizione di Jankélévitch si è dimostrata corretta. Va, però, sottolineato un limite di questo discorso.

Definire Auschwitz, ed ovviamente quanto avvenuto in tutti i campi di sterminio nazisti, crimine contro l’umanità induce a dimenticare che la soluzione finale non era rivolta verso un generico essere umano, ma verso gli ebrei, prima europei poi di tutto il mondo.

Non è una nota da dibattito accademico: uno dei punti deboli dell’impianto pedagogico sopra ricordato è stato aver separato la memoria della Shoah dalla storia dell’antisemitismo europeo, non mettendo in sufficiente evidenza come la propaganda nazista abbia potuto usufruire di secoli e secoli di antigiudaismo, prima greco, poi cristiano ed infine nelle versioni moderne dell’illuminismo e bolscevismo.
Bene, dunque, l’imprescrittibilità di Auschwitz, benissimo la definizione metastorica di crimine contro l’umanità, senza, però, scordare, che l’umanità, in questo caso, passa per l’ebreo.

Se non prendiamo coscienza dei nostri pregiudizi atavici, che oggi si ripresentano identici travestiti da antisionismo, a nulla servirà una memoria puramente commemorativa, che, anzi, rischia di produrre l’effetto opposto.

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