Questa settimana il governo ha ricevuto i venticinque miliardi della prima tranche dei fondi del Recovery Plan, che andranno a finanziare i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Il Recovery ha monopolizzato il dibattito dello scorso anno. Quale sarà il suo impatto su crescita e occupazione?

Molto dipenderà dalla capacità di portare a termine il programma; per molti dei progetti, il cronoprogramma (che, ricordiamolo, è condizione per l’esborso delle tranche successive da parte della Commissione) fa tremare i polsi.

Assumendo che i tempi siano rispettati, l’impatto del Recovery sulla crescita sarà certamente significativo (Secondo l’Istat, il Pil del 2026 dovrebbe essere tra il 2,6 per cento e il 2,8 per cento più elevato rispetto allo scenario base, senza Pnrr).

Moltiplicatrori

La misura del moltiplicatore dell’investimento pubblico - l’impatto di un euro speso sulla crescita del Pil - è uno dei temi più controversi del dibattito in macroeconomia, tema rilanciato dalla crisi finanziaria globale del 2008.

La letteratura recente, tuttavia, sembra giungere ad alcune conclusioni ampiamente condivise: il moltiplicatore dell’investimento pubblico è generalmente più elevato, nel lungo termine, di quello della spesa corrente (che invece ha effetti più espansivi nel breve periodo); inoltre, tende ad essere più elevato quando ci sono risorse inutilizzate, in altre parole, durante una crisi.

Infine - un risultato meno ovvio ma che ha giocato un ruolo importante nel dibattito sul Recovery e nella preparazione dei piani nazionali d’investimento- l’investimento pubblico ha un effetto volano sull’investimento privato; a lungo si è sostenuto, basandosi su risultati empirici spesso poco solidi, che l’investimento pubblico fosse in competizione con quello privato per il finanziamento da parte dei mercati finanziari, provocando aumenti dei tassi d’interesse e “spiazzando” le imprese.

Oggi invece molti studi concordano sul fatto che l’investimento pubblico (soprattutto in paesi con carenze infrastrutturali) aumenta la produttività attesa dell’investimento privato e quindi ha effetti duraturi sul capitale privato e sulla crescita di lungo periodo (detta “potenziale”).

Uno studio recente del Fmi stima gli effetti sull’occupazione a livello di settore e fornisce alcune indicazioni utili (e rassicuranti) per valutare l’effetto del Recovery per il nostro paese.

L’effetto dell’investimento pubblico sull’occupazione è di gran lunga superiore per le aree più arretrate (come il nostro Mezzogiorno): questo perché è più produttivo investire dove il capitale è più scarso e perché le zone più arretrate hanno generalmente una specializzazione produttiva più labor intensive.

Gli investimenti nelle tecnologie verdi e ad alta incidenza di Ricerca e Sviluppo hanno effetti particolarmente marcati sull’occupazione. Insomma, se (ripetiamolo ancora) si riusciranno a fare tutti gli investimenti previsti dal Pnrr, l’impatto sull’occupazione potrebbe essere ancora più marcato di quanto (prudentemente) previsto dal governo.

Il Recovery non può bastare

Tuttavia, negli ultimi mesi si è diffusa un’attesa messianica sul Recovery, come se i duecento miliardi stanziati per il nostro paese fossero l’alfa e l’omega della politica economica italiana negli anni a venire. Ovviamente non è così.

Chi scrive ha fin dall’inizio sottolineato l’importanza (anche quantitativa) del programma, messo in guardia da confronti affrettati e ingenerosi con i miliardi impegnati dall’amministrazione Biden ed evidenziato la svolta epocale del governo tedesco, per la prima volta disposto a mettere il proprio peso dietro ad un programma di investimento comune e di mutualizzazione del debito.

Tuttavia, il Pnrr deve essere considerato complementare a, e non sostitutivo di, un solido esercizio di programmazione economica, che vada ben oltre il 2026 (l’orizzonte del Recovery).

Il ritardo infrastrutturale italiano ed europeo, il sostanziale fallimento della strategia di Lisbona che avrebbe dovuto trasformare l’Unione europea nella più dinamica economia della conoscenza al mondo, sono il risultato di trenta anni di compressione degli investimenti (pubblici e privati); è illusorio pensare che un ritardo del genere possa essere colmato in tre o quattro anni con qualche centinaio di miliardi.

Altrettanto illusorio è immaginare che il colossale cantiere della transizione ecologica possa essere chiuso con i settanta miliardi dedicati alla rivoluzione verde dal Pnrr italiano, o che gli 82 miliardi dedicati al Mezzogiorno possano essere sufficienti per colmare il divario territoriale che si amplia fin dagli anni Settanta.

Pensare l’Italia oltre il 2026

Negli ultimi dieci anni la ricerca accademica e delle grandi istituzioni internazionali ci ha insegnato molto sugli effetti dell’investimento pubblico su crescita, occupazione e distribuzione del reddito, sull’importanza della spesa pubblica come volano per l’investimento privato e, non da ultimo, sulla necessità di utilizzare l’investimento pubblico come componente di una più ampia politica industriale.

Da questa mole di lavoro emerge chiaramente che la politica di bilancio non potrà più essere riposta nel cassetto, ma dovrà continuare a far parte della cassetta degli attrezzi del policy maker anche una volta messa la crisi alle nostre spalle.

La ricerca (recente e non solo) ci insegna anche che i famigerati mercati sono meno schiavi del totem del debito di molti commentatori della domenica, e che sono disposti a finanziare programmi di spesa pubblica e di investimento di medio e lungo termine.

Mentre il governo si impegna a far fruttare al meglio i fondi del Recovery, e sperando che gli effetti attesi in termini di crescita di Pil e occupazione si materializzino, occorrerebbe che in vista delle elezioni del 2023 le forze politiche facessero sapere agli elettori quale è la loro idea di paese, quali (e soprattutto quanti) investimenti intendono fare nei prossimi dieci anni per completare la transizione ecologica, digitalizzare l’economia, favorire la crescita delle regioni più arretrate, rilanciare l’investimento privato, far aumentare la crescita potenziale del paese.

La programmazione economica è stata a lungo considerata una parolaccia, in un mondo in cui il faro della politica economica erano le riforme strutturali (Stefano Feltri ricordava nei giorni scorsi le vicende della famosa lettera della Bice al governo italiano del 2011). È evidente invece che recuperare un orizzonte lungo nelle decisioni di politica e di politica economica è fondamentale per ritrovare una crescita sostenuta e sostenibile. Se no, per quanto importante, il Recovery sarà stato solo un fuoco di paglia.

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