A 84 anni Giovanni Arvedi, grande vecchio della siderurgia italiana, corona il sogno di diventare il numero uno. Acquista dalla ThyssenKrupp la Acciai speciali Terni, la più antica acciaieria italiana, e porta il suo gruppo a produrre circa 5 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, con un fatturato vicino ai 5 miliardi e oltre seimila dipendenti.

Numeri solo indicativi, perché il mercato dell’acciaio è in grande movimento, la domanda e i prezzi da alcuni mesi oscillano paurosamente e insomma si naviga a vista. Le indiscrezioni parlano di un prezzo di 700 milioni per la Terni, quanto ha stanziato due giorni fa il parlamento, con apposita leggina, per consentire alla società statale Invitalia (guidata da Domenico Arcuri) di tappare l’ennesima falla dei conti dell’Ilva, in cui lo stato paga e il gruppo ArcelorMittal continua a comandare.

Certo è che da oggi Arvedi può guardare dall’alto in basso l’ex colosso di Taranto, che sembra ripercorrere la malinconica china di un’altra azienda bandiera come l’Alitalia.

Nella parabola di Arvedi possiamo invece leggere la storia dell’acciaio italiano e trarne qualche indicazione (vagamente inquietante) per il futuro. La Terni fu fondata nel 1884 con denaro pubblico e proprietà privata, schema di gioco sempre piaciuto, per produrre l’acciaio per i cannoni, visto che ancora non c’erano automobili e lavatrici. E per non restare senza cannoni negli anni Trenta Benito Mussolini la salvò facendola comprare dal neocostituito Iri.

Nel Dopoguerra è ancora l’Iri, grazie a un manager visionario come Oscar Sinigaglia, a dotare il paese delle grandi acciaierie a ciclo integrale (cioè con l’altoforno che produce la ghisa fondendo il minerale ferroso) in grado di sostenere la ricostruzione con travi e lamiere. Sulla scia dell’Italsider (Genova Cornigliano, Piombino, Terni, Bagnoli e infine Taranto) cresce nel nord Italia la genia dei cosiddetti “bresciani” o “tondinari”, gente come Luigi Lucchini e Emilio Riva che producono acciaio fondendo rottame ferroso in forni elettrici per farne prodotti poveri. Arvedi inizia a Cremona la sua avventura a 27 anni, ma negli anni ’90 le strade si dividono. Quando l'Iri decide di svendere l'Italsider perché privato era bello, Riva si prende Taranto, Cornigliano e Terni, Lucchini compra Piombino.

Un volo di Icaro finito malissimo, con l’estinzione delle due dinastie industriali e, c’è da temere, anche delle grandi aziende che furono loro affidate. Arvedi è invece rimasto fedele ai suoi forni elettrici di Cremona, ha sviluppato tecnologie precocemente verdi, adesso compra la Terni (nel frattempo passata a ThyssenKrupp) che vale meno della metà del suo gruppo. Risolta la questione della successione affidando l’azienda al suo unico erede Mario Caldonazzo, figlio di sua sorella e dall’inizio dell’anno presidente e amministratore delegato del gruppo, Arvedi adesso pensa a quotarsi in Borsa per dare al gruppo un futuro più manageriale e meno familiare.

Il contesto globale

Qui finiscono le buone notizie per la siderurgia italiana, visto che non possiamo limitarci a seguire le vicende del cortile di casa senza inquadrarle nel contesto globale. Quest’anno si stima che nel mondo sarà consumato acciaio per 1.800 milioni di tonnellate. L’Asia e l’Oceania ne consumeranno 1.300 milioni di tonnellate, con Cina e India a fare la parte del leone, l’Europa tutta insieme 190 (sette volte meno), l’Italia naviga attorno ai 20 milioni di tonnellate, l’1,1 per cento della produzione mondiale. Trent’anni fa l’Ilva era uno dei cinque maggiori gruppi mondiali dell’acciaio, oggi sta oltre il centesimo posto, praticamente non è più rilevata nelle graduatorie. Da nove anni i sette governi che si sono succeduti restano sistematicamente paralizzati tra le promesse di mirabolanti rilanci e la realtà.

La realtà è un sistema complesso: fare l’acciaio senza avvelenare l’ambiente è difficile e costa, cioè rende meno competitivi. La strada dei forni elettrici è pulita ma anche costosa, come l’industria sta constatando oggi che il chilowattora ha quadruplicato il prezzo in pochi mesi. Con il gas le cose non vanno molto diversamente. Ed è comunque difficile competere con 4-5 milioni di tonnellate di produzione, quali raggiungerebbe l’Ilva se tutto andasse bene, contro gruppi come ArcelorMittal che viaggiano sul filo dei 100 milioni di tonnellate. E del resto se il gruppo anglo-francese si è comprato l’Ilva e adesso la sta restituendo allo stato (dopo averci peraltro fatto i suoi comodi per qualche anno) qualche domanda bisognerà che qualcuno se la ponga. Per esempio, come si fa a competere con i prezzi cinesi o brasiliani oggi che trasportare l’acciaio avanti e indietro per il mondo costa pochissimo? A questa e altre domande potrebbe rispondere un uomo con la cultura e la visione di un Sinigaglia, se non fosse morto nel 1953. Non ci resta che attendere le risposte del ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, visto che il premier Mario Draghi in questo momento ha altre urgenze.

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