Non è il plebiscito del leader che riporta i cittadini alle urne

Le recenti elezioni regionali hanno riconfermato la secessione delle urne da parte di milioni di cittadini. Ha ovviamente molto senso voler invertire questa tendenza e soprattutto i partiti dell’opposizione hanno un legittimo interesse a farlo. Tuttavia, si deve diffidare dei discorsi che associano il declino della partecipazione elettorale a quello della legittimità democratica. Lo si deve perché, non solo è sbagliatissimo far dipendere la legittimità delle istituzioni dal numero dei votanti ma, quel che è più grave, è anche contrario alla democrazia. E poi, dato il clima di assenteismo elettorale, perfino la prospettiva di trasformare l’elezione in un plebiscito a favore del premier potrebbe apparire una cura benefica. Se votare per i partiti è diventato poco attraente, non sarebbe meglio iniettare il tonico dello schierarsi a favore o contro il leader? Volete libero Gesù o Barabba? La politica dell’audience tende a legittimare la democrazia plebiscitaria. Discorsi vecchi di un secolo che, nell’era del pubblico che segue gli influencer, si ringiovaniscono. L’astensionismo è insostenibile, come riportare l’Italia alle urne Forme “funzionali” Il plebiscito è una scorciatoia che ci porterebbe fuori dalla democrazia elettorale. Ma ci sono altre implicazioni sgradevoli nell’associare la legittimità al numero dei votanti. Per esempio, alcuni studiosi americani hanno proposto forme “funzionali” di limitazione dell’esercizio del diritto di voto. Se il numero dei votanti diminuisce per autoesclusione, dicono, questo è un segno che il suffragio universale è solo un mito. E allora, perché non adottare forme “razionali” di limitazione della partecipazione al voto? Ogni adulto ha diritto di guidare l’auto, ma deve avere una patente di guida per esercitarlo. Perché non applicare lo stesso criterio al suffragio e non richiedere ai cittadini alcune conoscenze “civiche” minime? Del resto, se già molti cittadini non vanno a votare, ciò significa che la democrazia non ha bisogno che tutti partecipino per essere legittima. Non è questa la sede per una discussione accademica, ma accennare a queste argomentazioni è importante per far capire quanto perverso sia associare la legittimità democratica al numero dei partecipanti al voto. Se rimanere al potere è l’unico fine delle destre Il suffragio come plebiscito, da un lato, e la limitazione dell’esercizio del diritto, dall’altro: due facce dell’insofferenza per le elezioni pluripartite e per il suffragio universale che le legittima. Lo standard della partecipazione universale (che la bassa affluenza alle urne non mette in discussione) ci dice che l'aspettativa di un'affluenza universale opera come una norma invisibile che modella gli appuntamenti elettorali, nonché l’attività complessiva e il discorso pubblico che ruotano intorno alle elezioni. Ciò dà un’idea dell’importanza di questo diritto, interiorizzato come un dovere al punto che il pubblico e i cittadini considerano abitualmente la bassa affluenza alle urne un problema. È l’avere il diritto che fa tutto questo. Questo è lo standard normativo che sostiene il principio della giustizia elettorale e che suggerisce che si prendano decisioni per rendere l’esercizio del diritto di voto assolutamente non costoso, per controllare severamente le spese per le campagne elettorali, per avere leggi elettorali che rappresentino le istanze e i bisogni dei cittadini e che, soprattutto, non umilino l’opposizione dando premi alla maggioranza. Coraggio e visione, perché alla sinistra serve una svolta No alle scorciatoie Suggerisce infine che gli attori collettivi – i partiti politici – si impegnino a dare senso alla decisione dei cittadini di uscire di casa e andare ai seggi. Se si vuole ottenere un’ampia affluenza al voto, si devono volere partiti tra loro ben distinti e con proposte credibili. Non è il plebiscito del leader che riporta la democrazia al voto, ma sono luoghi fisici di discussione che facciano sentire ai cittadini il valore di prendere parte alla vita pubblica del loro paese. Si convincono gli elettori ad andare alle urne facendo buona politica laddove si governa, e costruendo un programma di governo in vista delle elezioni. Un programma che sia anche l’esito della conoscenza delle condizioni sociali del paese in tutte le sue componenti e nei suoi luoghi. Il programma elettorale è un lavoro di partito che dovrebbe avvalersi della ricerca. Ricostruire legami: tra politica e conoscenza; tra chi fa politica e chi vive e opera nella società; tra partiti e bisogni reali. Il programma elettorale dovrebbe essere smilzo, ma la ricerca dalla quale proviene non può essere smilza. E gli incontri nazionali, come momenti di apprendimento, di discussione e di ricostituzione di energia civica, sono parte di questa ricerca. Non ci sono scorciatoie per risolvere il declino della partecipazione al voto. Il potere dei camaleonti: Schlein e il rigetto nel Pd