C’è in noi una domanda di giustezza - di giustezza prima che di giustizia - che è più generale e più profonda di ogni sua specifica istanza. Sete di giustizia, appunto, fame di verità, piacere della bellezza, tarlo dell’esattezza. Questa richiesta muta, che dice da sola tutta la forza di questo “esigere”: opere ben fatte, domande ben poste, credenze ben fondate, cose “esatte”, appunto.

Qual è la fonte di questa esigenza? È una fonte “pura”, al punto che possiamo fidarcene e attingere a questo senso del giusto e dello sbagliato che si manifesta almeno sotto forma di interrogativo in ogni circostanza della vita, a proposito di ogni sua manifestazione, propria o altrui, personale o sociale?

Perché questa domanda è tanto universale e tanto ignorata? Perché è soggetta a tante dispute? Perché è così facilmente messa a tacere? Perché è così impotente, nonostante sia ciò che manifestamente distingue la vita umana da ogni altra forma di vita animale? Perché la storia umana è una tal sequela di tragedie, guerre e migrazioni, violenza e pubblica menzogna, ignoranza o complicità con la forza di volontà arbitrarie o quella impersonale del caso? Nonostante l’evidenza, in alcuni momenti della storia, di una catastrofe che incombe.

La domanda di giustezza

In un suo saggio del 1922, Europa smarrita, Robert Musil descrive lo stato d’animo che precede, in Europa, lo scoppio della prima guerra mondiale, come una «stupefatta inquietudine». C’era, dice, un sintomo della catastrofe: «L’accordare piena fiducia ai gruppi di specialisti che stavano nella macchina dello stato, cosicché si andò a dormire come in vagone letto e ci si svegliò solo nell’istante dello schianto».

Già: come mai ci rassegniamo a un “fato” che non ha più alcuna giustificazione mitologica o religiosa? Da dove viene questo tacito e neppure lucido disincanto sull’innocenza della domanda di giustezza negli atti e nel pensiero, che pure nutrì tutti i nostri “perché”? Dall’infanzia all’adolescenza?

Credo che la risposta vada cercata in una situazione spirituale che è di nuovo molto simile a quella descritta da Musil. Non mancavano, neanche cento anni fa, le geremiadi sui valori, gli appelli papali, le richieste di maggiore responsabilità, bontà, solidarietà. Ma non è di queste che abbiamo bisogno.

L’era della realpolitik

Noi non ci fidiamo più dell’innocenza dei nostri “perché?”, della purezza delle loro fonti. Abbiamo perduto i loro cercatori e custodi, i filosofi. O almeno, li abbiamo perduti di vista. Di tutte le cose che affliggono le società contemporanee, l’ampia vittoria della sofistica sulla filosofia, almeno nella cultura dei più, sembra un male molto minore. Ma non lo è. Notava Musil cento anni fa che la politica è «quasi la perversione dell’idealismo».

È pura realpolitik: ritiene reali solo le bassezze dell’uomo, tratta la bassezza come la sola cosa su cui fare affidamento. «Non fa leva sulla convinzione, bensì soltanto sulla coercizione e sull’astuzia». Nutre un «disprezzo luciferino» per l’impotenza dell’idealimo. E basta guardare al balletto dei partiti sulla questione dell’elezione del presidente della repubblica, per vedere di cosa stiamo parlando. Ma la politica, infine, è sempre stata in gran parte questo, forse non può non esserlo.

Guai se la realpolitik vince anche nel pensiero, si riverbera nella letteratura. Il secolo che ci separa da Musil ha visto il successo mondiale della realpolitik nel dominio stesso della filosofia, che è la ricerca e la sempre rinnovata depurazione delle fonti della domanda di giustezza dalle incrostazioni dell’ideologia, delle pulsioni identitarie, della confusione, della retorica, dell’ignoranza. Certo che dobbiamo affidarci agli esperti nella maggior parte delle questioni pratiche e pubbliche.

La nostra vita ha raggiunto un tale grado di dipendenza dalle organizzazioni complesse e dal sapere scientifico e tecnico che simo divenuti incompetenti quasi su ogni cosa. Eppure c’è una domanda che non può essere delegata da ciascuno ad altri, senza che ne derivino catastrofi di civiltà. È la domanda di giustezza, appunto, il nostro chiedere ragione di ciò che la mortifica.

Forse il senso ultimo degli auguri che ci facciamo per l’anno nuovo, che sono auguri di vita nuova, scaturisce ancora dalle profondità di quella domanda. Dice: rinnova la tua giovinezza. Ritrova fede nella tua innocenza. L’anima rivivrà, nell’esattezza delle tue domande.

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