Assicurare la massima trasparenza nel processo decisionale è diventato un punto d’onore delle istituzioni europee, a lungo accusate di opacità. Da questo mese, entra in vigore il nuovo accordo istituzionale tra parlamento europeo, Commissione e Consiglio che rende obbligatorio, per i lobbisti, iscriversi in un registro (in precedenza era facoltativo) e, soprattutto, che impone a tutti i decisori di rendere pubblici gli incontri avuti con i lobbisti.

Ma mentre a Bruxelles la democrazia fa passi avanti, in Italia assistiamo a prese di posizione di segno opposto anche rispetto ai piccoli passi compiuti, in questi anni, nella direzione della trasparenza.

Emblematica, al riguardo, la lettera inviata dall’Autorità per la privacy al ministero della Transizione ecologica per contestare il decreto con cui, ad agosto 2018, l’allora ministro Sergio Costa introdusse l’obbligo per sé, per i suoi collaboratori e per i dirigenti generali del ministero di rendere pubblici, ogni settimana, gli incontri avuti con i lobbisti.

Tale previsione, estesa a settembre 2020 anche ai dirigenti di seconda fascia e ai capi delle segreterie dei direttori generali, è ora parte del Codice di comportamento dei dipendenti del ministero e, in caso di mancata attuazione, sono previste sanzioni anche rilevanti.

Le misure introdotte, a costo zero, da Costa e pienamente confermate dall’attuale ministro Cingolani – che le ha sostenute con convinzione – hanno consentito, al cittadino come al giornalista, di conoscere il flusso di informazioni e le dinamiche di certi processi decisionali.

Tutta questa trasparenza, tuttavia, non sembra piacere all’Autorità che, in una lettera pubblicata da Il Fatto Quotidiano, ha sostenuto che l’eccessiva pubblicità di tali incontri possa violare la privacy di dirigenti e lobbisti.

Lobbying con poche regole

La lettera dell’Authority ci impone una nuova riflessione su come sia difficile in Italia regolare il lobbying e, ancora di più, imporre reali obblighi di trasparenza ai decisori pubblici. La Costituzione dispone espressamente, agli articoli 97 e 98, che i pubblici uffici devono assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione e siano posti al servizio esclusivo della nazione: sulla base di tali principi, il decreto legislativo n. 33 del 2013, all’articolo 10 comma 3, dispone che è compito di ciascuna amministrazione promuovere maggiori livelli di trasparenza rispetto a quelli definiti dalla normativa primaria.

In virtù di questa legge (e dei principi desumibili dalla giurisprudenza costituzionale in materia), l’Anac con la deliberazione n. 12 del 28 ottobre 2015 di aggiornamento del Piano nazionale anticorruzione, ha chiesto a ciascuna Amministrazione di adottare misure di regolazione ulteriori dei rapporti con i rappresentanti di interessi particolari.

Il decreto del ministro dell’Ambiente trova fondamento in queste precise e puntuali disposizioni normative: come, tra l’altro, esplicitato dal Piano triennale per la prevenzione della corruzione, rendere pubblici gli incontri che i decisori ministeriali di vario livello – politico e burocratico – hanno con i lobbisti significa non solo aumentare il grado di trasparenza dei processi decisionali ma anche prevenire possibili fenomeni corruttivi, specialmente nei settori a contatto con il pubblico (come, ad esempio, i procedimenti di valutazione e autorizzazione ambientale).

La misura introdotta nel 2018, peraltro, assume una grandissima rilevanza se si considera che il Mite gestirà buona parte dei fondi del Pnrr.

La stessa Anac ha adottato, nel marzo 2019, una identica agenda degli incontri, e modelli simili si ritrovano al ministero dello Sviluppo (dall’epoca di Carlo Calenda), al Lavoro (a partire da Luigi Di Maio), alla Funzione Pubblica (con Marianna Madia).

A onor del vero l’Autorità non chiede di sospendere la pubblicazione degli incontri e, d’altronde, un’eventuale sospensione sarebbe possibile, onde evitare un abuso, solo con un decreto del ministro. Pur tuttavia si fatica a comprendere perché mai le relazioni tra lobbista e pubblici funzionari debbano essere “riservate”.

La democrazia, per essere tale, deve essere una casa di vetro: il pubblico funzionario onesto non ha nulla da nascondere e non c’è privacy che regga quando esercita la sua funzione pubblica. La trasparenza non è mai troppa e non c’è riservatezza di fronte all’esigenza di far conoscere al cittadino cosa accade nei palazzi dello stato.

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