Tranne alcuni irriducibili che insistono sulla crisi di governabilita per criticare i propri governi, i cittadini democratici lamentano soprattutto una crisi di rappresentanza. Poi, sbagliando, pensano di risolverla riducendo drasticamente il numero dei parlamentari.

No, meno non è in nessun modo meglio. Però, molti cittadini hanno ragione nel lamentarsi che, una volta eletti, i parlamentari (aggiungere “loro” sarebbe troppo) li dimenticano, non si curano dei loro interessi, non tornano nei collegi.

Spesso in quei collegi non abitano, ma vi sono stati paracadutati. A quei collegi non dovranno rispondere poiché il loro “elettore” di riferimento è chi li ha nominati e ha il potere di rinominarli.

Ne consegue che raramente i cittadini potranno rivolgere agli eletti la domanda classica: “che cosa hai fatto per me di recente?” A tutto questo si è aggiunto uno sviluppo che mi permetto di definire deplorevole: usare la carica variamente acquisita per ottenerne un altro.

Eletta europarlamentare nel maggio 2019 alla leghista Susanna Ceccardi non è parso vero di rientrare nel Bel Paese per ottenere la presidenza della Regione Toscana. Avendo perso, poi, non garantirà nessuna rappresentanza agli elettori che l’hanno votata, tornandosene nel Parlamento Europeo. Già vicepresidente e Assessore della Regione Emilia-Romagna anche Elisabetta Gualmini è stata eletta al Parlamento Europeo con più di 78 mila preferenza.

Da qualche settimana, ha più volte offerto la sua disponibilità, se così vorrà il Partito democratico, ad accettare la candidatura a sindaco di Bologna cosicché quei 78 mila elettori del Nord-Est non avranno più da lei nessuna rappresentanza.

Il caso più eclatante è quello di Carlo Calenda, il più “preferenziato” degli europarlamentari del Pd: quasi 275 mila elettori hanno scritto il suo nome. Uscito dal Pd nell’agosto 2019, l’euronorevole Calenda ha annunciato l’intenzione di candidarsi a sindaco di Roma, suo luogo di nascita e di residenza. Tanti saluti a coloro che nel Nord-Est l’hanno votato e al Parlamento Europeo dove la maggioranza dei parlamentari non vede di buon occhio queste operazioni italiane di eletti che si dimettono per tornare a cariche politiche in Italia. Va sottolineato che, se non vincono, il seggio europeo è la loro posizione di ricaduta. Insomma, non rischiano molto.

Qualcuno, giustamente, sostiene che bisognerebbe stabilire l’obbligo di dimissioni da una carica di governo e di rappresentanza prima della candidatura ad altra carica elettiva. Certo, questa transizione non era quella che si ventilava (ma, forse, dovrei usare il tempo presente) per Stefano Bonaccini. Quasi subito dopo la sua rielezione alla presidenza della regione Emilia Romagna, già si prospettava per lui la carica di segretario del Partito democratico.

Forse lo si faceva per indebolire Nicola Zingaretti. Comunque, la logica era la stessa e ugualmente deplorevole. Anche se non avrebbe dovuto abbandonare la presidenza della Regione, Bonaccini avrebbe avuto meno tempo per occuparsi dei problemi e per rispondere alle aspettative di chi lo aveva appena rieletto.

Quella che pongo è, in senso lato, ma preciso, una questione di etica politica. Nei termini più semplici chi accetta o addirittura si adopera per ottenere una carica politica elettiva prende un impegno con gli elettori, non soltanto con i suoi.

Accetta di adempiere ai compiti di quella carica fino a compimento del suo mandato. Non facendolo produce una ferita nella rappresentanza politica e contribuisce a ridurre prestigio e onorabilità dei rappresentanti e delle loro assemblee.

L’opposto di  quello di cui qualsiasi parlamento ha bisogno. 

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