Il 14 febbraio è atteso il voto del Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio dell’Unione europea sul testo del Supply Chain Act europeo, la direttiva sulla due diligence delle imprese ai fini della sostenibilità. Per quanto la Ue abbia già raggiunto a dicembre l’accordo favorevole alla sua adozione, proprio con l’appoggio del Consiglio, il voto si delinea complesso a causa delle posizioni assunte dalla Germania negli ultimi giorni.

La bozza di direttiva impone alle società di maggiori dimensioni che vogliono vendere i propri prodotti nel mercato europeo di impegnarsi per vigilare, prevenire e rimediare le violazioni dei diritti umani che possano avvenire lungo la catena del valore. Ovviamente la direttiva non impone alle società europee di impedire che le violazioni avvengano, ma richiede che le imprese adottino misure ragionevoli per monitorale e prevenirle. E solo le imprese di grandi dimensioni devono sostenere i costi di queste misure, essendo escluse quelle piccole e medie.

Diritti e mercato

Nessuna impresa afferma che i diritti umani possano essere liberamente violati nella ricerca del profitto. Eppure molte aziende extra-europee abbattono i costi proprio violando questi standard. Si pensi alle condizioni di lavoro forzato con cui molti prodotti venduti sul mercato europeo sono realizzati, alle violazioni gravissime del diritto all’ambiente inflitte alle comunità delle aree in cui vengono realizzate tante attività di produzione, o al ricorso al lavoro dei bambini, costretti a scavare nelle miniere e raccogliere cotone, pomodori o caffè nelle piantagioni. Per le aziende europee che non producono all’estero o che non sono disposte a utilizzare questi mezzi, ciò rappresenta la più grave forma di concorrenza sleale.

La direttiva intende quindi proteggere i diritti umani, imponendo a chi vuol vendere sul mercato europeo di monitorarne il rispetto su scala globale, ma vuole anche tutelare le imprese europee da questa forma di concorrenza sleale.

Le grandi imprese già da quest’anno, sulla base della Direttiva sul Corporate Sustainability Reporting (CSR), devono rendicontare gli impatti delle loro attività lungo la catena del valore, ossia proprio quegli impatti negativi causati anche dai loro partner commerciali al di fuori dell’Unione europea. E questa attività di analisi sta già facendo emergere la gravità e la diffusione delle violazioni dei diritti umani non solo nel Sud del mondo, ma anche qui vicino a noi – come recenti casi giudiziari nazionali hanno dimostrato.

Lo sanno bene i governi, che per tre anni hanno negoziato il testo della direttiva. E lo sa anche il governo tedesco, che oggi, assieme a Finlandia e Austria, minaccia, sotto lo scacco del Fdp (il Partito Liberal Democratico) di astenersi dal voto. Una scelta ben poco comprensibile da parte della Germania, che ha già adottato una simile legge nel 2021, strumento che peraltro già coinvolge le società italiane che partecipano alla filiera delle imprese tedesche.

E l’Italia?

La posizione del governo italiano non è ancora chiara, specialmente dopo che il voto, originariamente previsto per il 9 febbraio, è stato posticipato. Dato che l’approvazione del testo necessita della maggioranza qualificata, ossia del sostegno di almeno 15 Paesi, che rappresentino il 65 per cento della popolazione europea, il peso dell’Italia in questa votazione è notevole.

Per l’Italia molte delle critiche sollevate dai governi che minacciano l’astensione non dovrebbero avere valore. Le grandi società italiane già rendicontano sulle informazioni di carattere non finanziario e tra il 2024 e il 2027 tutte rendiconteranno su sostenibilità, diritti umani e ambiente.

L’Italia ha già dal 2001 uno strumento che prevede la responsabilità delle società per i reati (il decreto 231/2001, che punisce anche, ad esempio, chi consapevolmente rivende beni prodotti col lavoro forzato nazionale o estero) e che potrebbe rappresentare un modello di riferimento anche per il recepimento di questa direttiva. Dal 2019 l’Italia ha già previsto la possibilità di presentare class actions per difendere interessi collettivi.

Per l’Italia, il passo verso la sostenibilità è dunque più breve che per altri Paesi europei. Il vantaggio competitivo per le nostre imprese è grande. E la direttiva ha il sostegno di molti, a giudicare dai tanti appelli rivolti ai governi europei in questi giorni.

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