Il primo governo della Repubblica a guida post fascista, anche grazie alla coincidenza con il centenario della marcia su Roma, è un fatto storico, quindi anche l'occasione giusta per fare i conti con certe categorie della politica. Per esempio è l'occasione per liberarci di due parole ambigue e ipocrite, centrodestra e centrosinistra.

La prima fu introdotta da Silvio Berlusconi per sdoganare i suoi alleati post fascisti del Movimento sociale italiano guidato da Gianfranco Fini. La seconda fu inventata da Walter Veltroni per accompagnare l'idea, ritenuta rassicurante per l'elettorato, che i post comunisti oramai erano solo vagamente di sinistra, non più di quanto lo fosse stato Aldo Moro. Adesso che Giorgia Meloni ha vinto le elezioni con la fiamma tricolore nel simbolo, e dopo che Enrico Letta ha chiamato alle urne il popolo di sinistra per «difendere la costituzione più bella del mondo», sarebbe un'utile semplificazione del linguaggio, e quindi dei pensieri, parlare di destra e sinistra. Tanto non c'è più niente a destra di Meloni e non c'è più niente a sinistra del Pd.

Nomi e idee

Non è solo una questione nominalistica. Le parole sono fatte per imprigionare le idee e spesso le mettono sui binari sbagliati. Centrosinistra ha significato per quasi trent'anni che le elezioni si vincono al centro con proposte politiche moderate. Chiamarsi centrosinistra è servito a tutti i dirigenti della sinistra degli ultimi decenni a dimenticarsi di dovere la loro carriera e il loro posto di lavoro a un popolo di lavoratori o disoccupati che adesso li ha abbandonati. Vergognarsi di definirsi di sinistra è stata la loro rovina.

Eppure si chiamava Sinistra il partito di Agostino De Pretis, un avvocato benestante che nel 1876 portò la sinistra al potere, scalzando un partito che si chiamava Destra, nell'Italia post-unitaria di Vittorio Emanuele II in cui Giuseppe Mazzini era morto latitante e aveva diritto di voto il due per cento della popolazione di genere maschile.

Dando alle cose il loro nome, perché quelli sono i mondi, quelli gli ideali, quelle le tradizioni, ci possiamo rendere conto che la sinistra, delle 20 elezioni politiche che si sono tenute in Italia a partire da quelle per la Assemblea costituente del 2 giugno 1946, ne ha vinto veramente una sola, il 21 aprile 1996 con Romano Prodi. L'Ulivo, come si chiamava allora la larga alleanza che partiva dagli ex democristiani e arrivava fino ai comunisti di Fausto Bertinotti, era percepito da tutti gli elettori come la casa di tutta la sinistra. Ma è lì che è iniziato il declino della sinistra, che porta oggi il Pd (erede legittimo di Pci e Dc) a prendere meno della metà dei voti di quanti ne prendeva il Pci di Enrico Berlinguer da solo, benché relegato all'opposizione perpetua dal quadro internazionale in cui l'Italia si trovava.

Il prossimo congresso

Di questo dovrà discutere il prossimo congresso del Pd, se non sarà l'ennesima contesa del potere sulle macerie. Dopo la vittoria di Prodi del 1996 tutti i leader veri, presunti o aspiranti, si sono convinti che il centrosinistra, in forza del nome che richiamava il passato glorioso di Moro, Fanfani, La Malfa e Nenni, avesse conquistato definitivamente il potere, o una quota di potere, e che l'incombenza dei dirigenti sarebbe stata da lì in poi solo contenderselo tra loro.

Così Massimo D'Alema e Fausto Bertinotti hanno fatto fuori Prodi nel 1998, D'Alema si è fatto fuori da solo nel 2000, poi è tornato Prodi che è stato rifatto fuori da Walter Veltroni che poi si è fatto fuori da solo, poi è arrivato Pierluigi Bersani che è stato fatto fuori da Matteo Renzi che è stato fatto fuori da Nicola Zingaretti che è stato sostituito in corsa da Letta. In 15 anni (è stato fondato nel 2007) il Pd ha avuto nove segretari e mai una visione del futuro da proporre agli elettori. Adesso i reduci del disastro di domenica potrebbero ricominciare dal riconoscere che il loro nome è, per cause geometriche, sinistra. E cercare di ricordarsi che cosa vuol dire.

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