Basta aprire le pagine dei giornali in queste settimane per imbattersi in termini che pensavamo fossero stati consegnati alla spazzatura della storia della politica e dell’economia in un mondo dominato dal mercato globale.

Basti pensare alla nazionalizzazione di Electricité de France da poco annunciata da Emmanuel Macron, e l’intenzione del governo tedesco di acquistare azioni di compagnie energetiche in difficoltà; ai controlli dei prezzi sul mercato dell’energia messi in campo da quasi tutti i paesi occidentali per fare fronte all’effetto della guerra in Ucraina; o ancora ai grandi piani di transizione ecologica. 

Nazionalizzazioni, controllo dei prezzi, pianificazione: siamo di fronte a un evidente ritorno di politiche che ricordano lo stato interventista keynesiano visto in Europa nei tre decenni successivi alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, e che sembrano prefigurarne un suo ritorno seppure in forme radicalmente diverse.

Le molteplici crisi stanno costringendo la politica a rivedere le aspettative su quale debba essere il ruolo dello Stato e la sua relazione con il mercato.  

L’illusione della globalizzazione

Durante l’era neoliberista il consenso tra le forze politiche di centrodestra e centrosinistra era che lo Stato era destinato a perdere potere a causa dell’effetto della crescente interconnessione globale.

I flussi del commercio e della finanza avevano ormai reso diversi meccanismi di governo dell’economia obsoleti, limitando le opzioni di politica economica a quelle compatibili con un mercato aperto, sotto la costante minaccia di fuga delle imprese e dei capitali.

Durante una visita in Vietnam nel 2000, Bill Clinton ha detto che «la globalizzazione è una forza della natura, come il vento e l’acqua».

A questa diagnosi sull’inevitabilità della globalizzazione si accompagnava una visione normativa, propria della dottrina economica e politica nota come “neoliberismo”, che vedeva nello Stato un freno allo sviluppo del pieno potenziale della società.

Per creare prosperità era necessario sprigionare lo spirito imprenditoriale dei cittadini e la competitività delle imprese. E ciò - in base al discorso dominante - richiedeva di ridurre al minimo l’intervento statale.

Allo Stato spettava il mantenimento dell’ordine pubblico, come alcune attività di regolazione del mercato e della concorrenza. Ma non poteva avere una politica industriale, perché questa avrebbe interferito  con lo sviluppo spontaneo del mercato.

Inoltre, la spesa pubblica doveva essere ridotta il più possibile perché fonte di sprechi, e i servizi pubblici progressivamente privatizzati, perché le compagnie private sarebbero state in grado di offrirli a condizioni migliori.

Eppure, oggi è diventato sempre più difficile per le forze politiche di centrodestra e centrosinistra sostenere che il mercato debba essere lasciato solo: in questa fase di continua emergenza significherebbe condannare migliaia di compagnie al fallimento.

I governi sono tornati a intervenire sulla politica commerciale e industriale perché siamo di fronte a un’implosione oggettiva della globalizzazione che costringe politici e imprese a correre ai ripari.

Basti vedere quello che sta avvenendo sul fronte della catene di approvvigionamento dove oggi la parola che va di moda nel mondo delle imprese è “reshoring” (ovvero riportare produzioni a casa) invece che l’offshoring e le delocalizzazioni che un tempo dominavano la scena. L’illusione della globalizzazione come fenomeno durevole sta venendo meno.

La battaglia sul ruolo dello Stato

Come sostengo nel mio libro Controllare e proteggere: il ritorno dello Stato (Nottetempo), quella a cui stiamo assistendo non è una semplice congiuntura emergenziale dopo cui si tornerà infine alla normalità di quelli che il politologo britannico Jeremy Gilbert ha descritto come «i lunghi ‘90», ovvero l’era d’oro dello globalizzazione tra il 1989 e la crisi del 2008.

Siamo invece nel passaggio tra due ere, quella neoliberista, votata alla visione del “libero mercato”, e una nuova era che chiamo “neostatalista”: perché oggi la questione decisiva a qualsiasi latitudine è come le istituzioni pubbliche possano garantire un certo grado di ordine, prevedibilità e sicurezza in un mondo in preda al caos.  

Questo neostatalismo si configura come l’emergere di un nuovo consenso rispetto alla necessità di un maggior intervento dello stato: ma a partire da questo consenso di base le forze politiche hanno visioni radicalmente diverse di cosa debba essere effettivamente questo interventismo statale.

Siamo di fronte a diversi neostatalismi, di destra, di centro e di sinistra, che rispondono in modo diverso alla domanda di protezione, sicurezza e controllo sollevata dai cittadini.

Forme di neostatalismo di destra si sono già messe in mostra a partire dalla metà degli anni 2010 a partire da cosiddetti movimenti populisti come la Brexit nel Regno Unito e Trump negli Stati Uniti, e il modo in cui hanno accompagnato a domande di recupero della sovranità un forte interventismo sul fronte della politica commerciale, al fine di modificare la situazione del loro paese nel commercio internazionale.

In questo contesto gli scambi commerciali non vengono più visti come processi puramente economici, ma sono legati a considerazioni di carattere politico, nel quadro di quello che Alessandro Aresu ha definito un “capitalismo politico”.

Inoltre, questo neostatalismo si manifesta in un rafforzamento dell’apparato repressivo dello Stato contro gli immigrati e altre figure accusate di mettere in pericolo la sicurezza dei cittadini.

A sinistra invece il ritorno dello Stato si manifesta in un progetto di protezione integrale, economica, sociale e ambientale, che punta a ristabilire e difendere condizioni minime di sicurezza e benessere che si considerano essere andate perdute o essere pesantemente minacciate.

Ne è esempio la riforma del lavoro di Yolanda Diaz in Spagna, che limita fortemente l’uso di contratti temporali, ma anche le proposte di “protezione ecologica” e “pianificazione ecologica” fatte dal candidato di sinistra Jean-Luc Mélenchon durante l’ultima campagna elettorale in Francia che assegnano alla macchina statale un ruolo decisivo nell’affrontare l’emergenza climatica.

Oggi pure esponenti centristi di fede liberal sono diventati neostatalisti.

Se da un punto di vista discorsivo siamo di fronte a un cambiamento significativo nella pratica politica la situazione rimane più complessa.

Nella maggior parte dei casi lo statalismo a cui siamo assistendo rimane votato a salvare i mercati dai suoi stessi fallimenti e i patrimoni grandi e piccoli.

Lo Stato assicuratore

Siamo di fronte a quello che l’economista Daniela Gabor ha definito un “derisking state”, ovvero una sorta di “Stato assicuratore” la cui missione è puramente ridurre i rischi per gli investitori, senza andare veramente a cambiare il modo in cui è organizzata l’economia e la sua proprietà, per non parlare della distribuzione della ricchezza.

Molto più limitati nei paesi occidentali sono invece i casi di quello che la stessa Gabor “green developmental state”, ovvero uno stato “sviluppista” (votato attivamente a garantire lo sviluppo dell’economia) che interviene direttamente nella produzione, anche assumendosi, come nel caso di Macron e Edf, la proprietà di imprese strategiche.

In questa fase di crisi continue le forze politiche si vedono costrette a riverniciare l’armamentario arrugginito dell’interventismo statale, a promettere ai cittadini protezione di fronte all’insicurezza e usare la macchina dello Stato per ristabilire un certo grado di prevedibilità e ordine all’economia nazionale.

Su questo tema si giocherà la battaglia per il consenso negli anni a venire.  

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