Era il 2006 quando John McConnell e Richard Horton su The Lancet avvertivano che dovevamo prepararci per una nuova pandemia da coronavirus, affermando allora che questa era «inevitabile» e che avrebbe causato «un costo in termini di vite umane e persone ammalate ben più alto che qualunque recente disastro naturale».

Certo, il virus dell’influenza «spagnola», che tanta morte seminò nel mondo nel 1918-19, fu identificato solo nel 1933 come coronavirus del tipo H1N1. Ma, nonostante la medicina abbia fatto molti progressi da allora, riflettevano i due esperti, il mondo appare ancora mal equipaggiato per prevenire e combattere una nuova pandemia.

L’ipocrisia

Ora che una nuova pandemia è arrivata davvero – dopo che molti altri ne avevano preannunciato la possibile esplosione, non ultimo il bravo David Quammen con il suo Spillover pubblicato nel 2012 e quest’anno divenuto un best-seller anche in Italia (grazie alla sempre callida Adelphi) – i grandi media e gli stessi pubblici decisori si sono però concentrati sull’oggi, incalzati dai bollettini sui contagi e i decessi, provando a correre ai ripari.

Certo, la prevenzione è importante e fondamentali saranno i vaccini, ma vedere sistemi sanitari di paesi «avanzatissimi» sottoposti a stress, il personale sanitario soffrire l’ondata epidemica per essere poi portati sugli scudi come «eroi», ha solo portato amara soddisfazione a chi aveva criticato i tagli alla sanità pubblica, le privatizzazioni, l’ospedalizzazione del servizio sanitario contro la sua diffusione su territorio, e via dicendo.

La pandemia da Covid-19 ha enfatizzato una certa ipocrisia, mettendo in luce gravi carenze dei sistemi – non ultima quella che ora ha portato alla diminuzione dei test e degli interventi per le altre patologie, aumentandone così gli effetti letali – e rimettendo al centro l’esigenza di intervenire nella sanità e di potenziare soprattutto la sanità pubblica. La quale, nonostante quanto sostenuto da alcuni, è stata negli ultimi anni sistematicamente negletta.

Secondo i dati Eurostat, nel 2018 l’Italia destinava alla sanità meno di quanto aveva fatto fino al 2010, cioè l’8,7 per cento del suo Pil, contro una media europea del 9,9 per cento (e all’11,5 per cento della Germania e l’11,3 per cento della Francia). Non solo, ma mentre Germania, Austria, Paesi Bassi spendono tra i 4.300 e i 4.500 euro per abitante e Francia e Belgio (e Regno Unito) ne spendono tra i 3.700 e i 4.000, noi siamo nel gruppo «di mezzo», con una spesa di 2.500 euro pro-capite.

Problemi di dotazione

La pandemia ha inoltre messo in evidenza i limiti di un sistema sanitario che privilegia l’ospedale (e l’ospedalizzazione) su un sistema più diffuso sul territorio – anche Draghi ne ha parlato nel suo discorso d’investitura – l’importanza della dotazione in termini di attrezzature e mezzi, ma anche di personale a tutti i livelli. E ha enfatizzato le enormi differenze sociali, che si sono manifestate nel modo in cui fasce diverse di popolazione hanno potuto fronteggiare la pandemia e le misure adottate per contenerla (lockdown, chiusura e limitazione delle attività, chiusura delle scuole e didattica a distanza, e via dicendo).

La pandemia rappresenta un’enorme minaccia per i gruppi e le fasce più vulnerabili. In molti paesi ciò è apparso evidente – per le macroscopiche disuguaglianze di condizione – ma anche da noi questa sarà, a conti fatti, una pandemia sistemica di disuguaglianza. «La disuguaglianza», ha scritto di recente Richard Horton di The Lancet, «è uno dei fattori di rischio di morte da Covid-19 più importanti». Per non parlare degli effetti «collaterali» della pandemia. La didattica a distanza, ad esempio, non ha avuto lo stesso impatto sulle varie fasce: famiglie con più figli e meno dotazione di dispositivi e connessioni hanno sofferto più di famiglie meno numerose e dotate di mezzi.

Le condizioni di lavoro hanno ovviamente influito sul grado di esposizione al contagio per certi lavoratori più di altri. Il confinamento domestico ha avuto effetti organizzativi, logistici e psicologici diversi per chi dimora in ambienti piccoli e sovraffollati rispetto a chi si può permettere spazi più ampi. I rapporti sociali sono stati devastati, con un impatto pesantissimo, ancorché differente, su giovani, adulti e anziani. Su questo, ad esempio, uno studioso insigne come Michael Marmot, dell’Istitute of Health Inequality, ha risposto allo slogan governo britannico Build back better con un build back fairer, ricostruiamo più equamente. In l’Italia, siamo ancora alle dichiarazioni di principio, ma staremo a vedere quanta attenzione i «piani di ricostruzione» sapranno avere il segno dell’equità.

È stato anche detto che questa può essere definita una sindemia, ovvero l’interagire sinergico di pandemie diverse, con due diversi connotati. Il primo è che il suo effetto è stato devastante soprattutto sugli anziani, anche e perché affetti da altre patologie, che sono poi le patologie croniche delle malattie «non trasmissibili» per le quali, negli ultimi anni, è stato invocato il concetto di pandemia, proprio per la loro enorme diffusione: malattie cardio-cerebro-vascolari, malattie dell’apparato respiratorio, diabete, obesità (il 98 per cento dei decessi da Covid-19, in Italia, riguarda persone affette da tali patologie).

In Italia, peraltro, secondo il Rapporto Osservasalute del 2018, ben il 40 per cento della popolazione italiana soffre di patologie croniche, ma la quota sale all’86 per cento per chi ha più di 75 anni di età. Gli italiani saranno forse molto longevi ma la loro vecchiaia è severamente affetta da patologie. Insomma, in Italia si invecchia «male». L’incidenza di tali patologie appare poi essere seriamente correlata con le condizioni socio-economiche (con il titolo di studio o con il reddito, ad esempio) che è il secondo aspetto «sindemico». Chi ha solo la licenza elementare o media (in Italia, la metà della popolazione) presenta un’incidenza delle malattie croniche più alta del 15 per cento di chi ha la laurea, a parità di età.

Ovvero: ci sono con-cause e co-fattori socio-economici a concorrere alla pandemia, che ne fanno una sindemia. E questo ci porta al secondo aspetto «sindemico», ovvero che ci sono con-cause e co-fattori socio-economici a concorrere alla pandemia, come questi dati suggeriscono. L’aspetto più preoccupante rivelato dalla pandemia è quello che riguarda il nostro futuro. Perché non se ne sono ancora guardate le cause originarie (di cui ci avevano messo in guardia Quammen e gli altri) e per come ne stiamo, ora, affrontando le implicazioni. L’alterazione globale degli ecosistemi, in sintesi, è il principale imputato ed è qui che si dovrà andare a incidere.

La pandemia da Covid-19 è una questione ambientale, eco-sociale, perché riguarda i modi di produzione degli alimenti, la sicurezza alimentare, gli usi alimentari, l’uso dei terreni, ma anche, quindi, il tenore e le condizioni di vita. Ed è il capitalismo predatorio che va messo sul banco degli imputati, senza appello.

Tutto ciò sta ormai chiaramente evidenziando un approccio alla sanità pubblica che deve mettere al centro della sua azione le determinanti ecologiche della salute e la consapevolezza di un approccio eco-sociale. Ma è anche la scienza della salute stessa – la medicina – che deve assumere un atteggiamento diverso: non l’approccio individualistico e bio-medico che guarda soltanto ai virus e agli animali loro portatori, ma un approccio bio-ecologico che vede nella relazione degli umani con la natura il problema. Ed è una discussione che non potrà restare confinata nell’accademia, dove peraltro i ricercatori lavorano in silos disciplinari, ma dovrà aprirsi alla società ed entrare a far parte della discussione su quale sanità pubblica vogliamo per il dopo-Covid.

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