Il 6 aprile scorso è successo qualcosa di inaccettabile in una democrazia: una spedizione punitiva di oltre 300 poliziotti è entrata nel carcere Uccella, a Santa Maria Capua Vetere, e ha picchiato i detenuti che protestavano per le proprie condizioni, aggravate dalla pandemia.

Sapevamo che quella rivolta non era stata gestita come le altre che le carceri italiane hanno sperimentato durante i mesi del lockdown: a giugno 57 agenti sono stati perquisiti, le accuse dell’indagine includono reati molto gravi come tortura. Matteo Salvini si era precipitato a dare solidarietà. Non alle vittime, ma ai presunti torturatori.

Dagli articoli che Nello Trocchia ha pubblicato in questi giorni su Domani sappiamo come sono andate le cose quel 6 di aprile. L’operazione di polizia nel carcere non si è limitata a riportare l’ordine ma, a quanto sappiamo dai testimoni, è servita soprattutto a sfogare la tensione accumulata dagli agenti in quelle settimane difficili. Calci, schiaffi, umiliazioni, pestaggi anche ai danni di un detenuto disabile. Di quelle violenze ci sono anche i video.

Questo è il paese che ha già conosciuto scene simili alla scuola Diaz di Genova nel 2001, che ha visto morire ragazzi come Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi per mano di persone che avrebbero dovuto proteggerli e che invece li hanno massacrati e poi hanno fatto di tutto per evitare le proprie responsabilità.

Non possiamo dire che abbiamo dimenticato: uno dei filoni del processo Cucchi è ancora in corso, il film che ricostruisce la vicenda ha addirittura vinto un David di Donatello e veniva proiettato nelle piazze come atto di impegno civile.

Eppure la vicenda di Santa Maria Capua Vetere lascia indifferenti quasi tutti: erano soltanto detenuti, per di più in rivolta, che sarà mai qualche manganellata? Ma quello che è successo in quel carcere non può essere tollerato.

La magistratura sta indagando, vedremo che esito avranno le inchieste. Il piano penale, però, non è l’unico. Su quello disciplinare, non si registra alcuna azione nei confronti degli agenti coinvolti e dei loro responsabili, anche se sappiamo i nomi e i cognomi.

Il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, il magistrato Francesco Basentini (dimessosi a maggio per altre ragioni) non ricorda se ha preso provvedimenti. Il suo successore Dino Petralia è rimasto altrettanto immobile.

Agenti accusati di tortura restano in servizio nelle carceri, persino negli stessi reparti dove si è svolta la spedizione punitiva del 6 aprile. Tutti sono innocenti fino a prova contraria, dal punto di vista penale. Ma quel giorno, in quel carcere, c’erano persone che non avrebbero dovuto esserci, che hanno tenuto comportamenti inappropriati.

Ci sono telecamere di sorveglianza, detenuti che hanno visto e subito, anche referti medici, è lecito immaginare. I fatti già accertati, insomma, sono più che sufficienti per legittimare un intervento dall’alto, se non altro in via cautelare. Se un’azienda scopre un ammanco e ha prove che un suo impiegato ha gestito male la cassa, può prendersi del tempo prima di decidere se licenziarlo, ma lo mette in condizione di non fare altri danni.

C’è soltanto una persona che potrebbe – e dovrebbe – rompere questa cappa di silenzio: il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede.

Solo lui può chiedere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di rendere conto di quello che è successo. Se Bonafede sceglierà di non interessarsi del caso, nascondendosi dietro il comodo alibi «lasciamo lavorare la magistratura», si renderà complice dei responsabili di quegli abusi.

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