Dopo un decennio in cui la Banca centrale europea non riusciva a far salire l’inflazione al 2 per cento, oggi essa affronta rialzi fra 7 e 10 per cento, legati all’energia e altre strozzature d’offerta. Complice la guerra, si teme un circolo vizioso di rincorsa fra prezzi e salari. Il nostro governo pare rifarsi agli accordi del 1993, ideati da Carlo Azeglio Ciampi allora presidente del Consiglio e firmati, con tormentato senso di responsabilità, dal segretario generale della CgilBruno Trentin.

Entrambi avevano lottato per liberarci da fascismo e Wehrmacht. Era un’altra Italia, si usciva dalla svalutazione del settembre 1992. Per impedire che essa avviasse il circolo vizioso, Ciampi limitò gli aumenti al tasso d’inflazione programmata. A campagna elettorale quasi aperta, il presidente del Consiglio Mario Draghi, direttore generale del Tesoro con Ciampi ministro a fine anni Novanta, avrà serie difficoltà a seguire strade analoghe.

L’attacco di Bonomi

In campo ci sono i sindacati dei lavoratori, quello delle imprese e il governo. Non è tempo di diplomazie, spara l’artiglieria. Apre il fuoco sul governo, all’assemblea Assolombarda, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Il costo del lavoro mina la competitività delle imprese, dice, va tagliato agendo sul cuneo fiscale.

Più che un missile è una litania nota, ma anche stavolta – già è accaduto col secondo governo Prodi – Confindustria glissa sulla copertura del taglio; pensa che le generazioni future debbano incollarsi altre carrettate di debito pubblico. L’ha scritto sull’Economia del Corriere della Sera Alberto Brambilla.

“Paghi Pantalone”, il che in Italia significa soprattutto i dipendenti. Confindustria è tranquilla, non spetta a loro scegliere chi comanda a casa sua. Essa ha gli stessi condizionamenti dei politici, “cattivi” per antonomasia. Anche i presidenti di Confindustria puntano alla riconferma prima, poi a restare nel giro, mostrando alla “base” di saperla difendere. Come i politici, ovunque poco propensi a rappresentare oggi gli interessi dei cittadini di domani, essa non progetta lo sviluppo futuro delle imprese. È sempre questione di incentivi.

La risposta di Colao

Abituato a lanciare i suoi moniti senza contraddittori, Bonomi si sarà sorpreso della pronta reazione in assemblea del ministro dell’Innovazione, Vittorio Colao. Questi ha invitato le imprese ad assumere piuttosto i giovani, pagandoli cifre almeno decenti. Se un quinto dei migliori laureati italiani lascia il paese che li ha formati come cittadini e ha pagato i loro studi, senza che tale grave uscita sia compensata dall’entrata di validi laureati dall’estero, è perché troppe nostre imprese non offrono lavori paragonabili a quelli che essi trovano emigrando. Altrove li pagano molto di più, ben oltre il doppio, differenze davanti alle quali impallidisce il 10 per cento di eccessivo cuneo fiscale dichiarato! Essi partono a malincuore, non vanno a Berlino perché preferiscono i bagni nei laghetti del Tiergarten al Mediterraneo.

Il grande nodo è la produttività, su cui, ha scritto il direttore Stefano Feltri giovedì, siamo tutti colpevoli. La produttività delle nostre imprese oltre i 200-250 dipendenti non è inferiore, anzi spesso superiore, a quella delle omologhe tedesche. Il punto è che esse sono poche, e troppe quelle di taglia minima, in genere impegnate in prodotti a basso valore aggiunto. Pesa anche la smania di controllo di tante imprese familiari, compresse nello sviluppo perché la famiglia possa restare in sella.

Un passato che pesa

C’entra anche la poca concorrenza. Un grafico esposto da Michele Polo su Lavoce.info mostra la caduta della produttività, dal 1996 al 2014, nei servizi (meno 10 per cento) e nei “non tradables” (meno 15 per cento). Esso ci ricorda perché va sconfitta l’ostinata lotta della destra contro la legge di concorrenza.

C’entra perfino la storia personale di Colao. Dall’alto della sua carica Bonomi fa lezione a lui, alla guida per dieci anni di Vodafone, multinazionale che avrebbe al più potuto ammettere fra le sub fornitrici l’azienda per cui Bonomi è oggi presidente di Confindustria. La traiettoria professionale di Colao calza a pennello al nostro tema; ora è tornato in Italia da ministro, speriamo che duri, ma il passato pesa.

Giunto da Vodafone nel 2004 a dirigere Rcs, editrice del Corriere, ne fu estromesso brutalmente dagli azionisti, desiderosi di imporgli scelte che non condivideva e scontenti del suo stile gestionale. Tornato a Vodafone, ne divenne poi amministratore delegato; emigrante anch’egli, sia pur di lusso, sa di cosa parla.

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