Due guerre regionali pronte a degenerare in conflitto mondiale. Il cambiamento climatico ormai inarrestabile. L’intelligenza artificiale che presenta inedite sfide etiche e sociali. Il calo demografico. Le turbolenze finanziarie. La democrazia in pericolo… la lista di calamità che rischiano di trascinare il mondo sull’orlo del baratro pare infinita. Un’unica consolazione: il Festival di Sanremo è alle porte e finalmente potremo dimenticarci dell’Apocalisse imminente. Almeno per una settimana.

Gli spazi per l’Europa

Passata quella, sarebbe assai più rassicurante sapere che la politica ha pronto un piano per scongiurare l’abisso. In particolare adesso, dal momento che mancano solo quattro mesi a un appuntamento fondamentale per il nostro continente: non l’Eurovision, ma le elezioni europee.

E se tutti questi problemi assomigliano ad uno tsunami emotivo ancor prima che materiale, è ormai evidente a tutti che l’unico modo per evitare di esserne travolti è guardare in direzione di Bruxelles: quell’àncora europea che, per dimensione e autorità, è l’unica in grado di resistere.

Sempre che non sia già troppo tardi! L’Unione di oggi assomiglia poco allo spirito che ha aggregato i suoi membri fondatori dopo secoli di lotte fratricide e conflitti autolesionisti: si trattava di un chiaro intento solidaristico trasversale a paesi, popoli e classi sociali teso a trovare una sintesi tra posizioni molteplici, nel rispetto delle diverse identità.

Si prefigurava un destino da grande attore geopolitico, punto d’incontro tra oriente e occidente, capace ad allargare il dialogo a tutto il Mediterraneo, compresa quella sponda africana che oggi ci appare così lontana. Che fine ha fatto quel progetto? C’è ancora spazio per quell’Europa, oggi schiacciata nella morsa di imperi che mirano ad assimilarla o soverchiarla, e di una globalizzazione sempre più dominata dal mercato e dall’iniziativa individuale?

Estranei alla politica

Interrogativi inquietanti di fronte all’evidente piano inclinato dell’irrilevanza su cui il continente scivola. Le grandi potenze hanno smesso di domandarsi che cosa voglia l’Ue. In effetti, non sembra più pronta a contribuire granché. Un’insipienza che ha già ripercussioni tutt’altro che astratte: la carenza di peso politico si traduce in scarsa competitività; i conflitti determinati altrove pesano su mercati e bollette; persino il Green Deal che potrebbe rappresentare un modello per un pianeta rovente raccoglie scarso interesse oltre confine.

Elementi che sarebbero sufficienti per trascinare le folle nelle piazze, consapevoli che esprimere malcontento non basta più: c’è bisogno di un vero cambiamento. Più prosaicamente, basterebbe già discutere di idee e programmi con cui i partiti propongono di invertire la tendenza. Eppure, a ridosso della scadenza elettorale tutto ciò di cui si dibatte sono le candidature.

Presentare un nome piuttosto che un altro consentirà la conquista di mezzo punto percentuale, difficilmente cambierà il mondo. Ma, in fondo, di che altro potremmo argomentare? La disillusione è manifesta e non tanto nei confronti della classe dirigente. Oggi il disincanto è ben più radicale: non si crede più che la politica abbia la facoltà reale di incidere sulle grandi scelte. E allora, meglio azzuffarsi sui candidati piuttosto che restare in silenzio nel vuoto di idee.

Di fronte alle mancate decisioni del Senato, il popolo della Roma repubblicana optava per una dignitosa secessio plebis: i cittadini uscivano dall’urbe finché non si fosse convenientemente deliberato. Oggi noi, in maniera più sommessa, ci comportiamo proprio come durante Sanremo: poco interessati alle canzoni in gara, rimaniamo incantati dalle mise degli ospiti e dalle boutade fuori programma.

Tutt’al più, siamo in grado di ripetere le rime di qualche ritornello orecchiabile, ma, ignorando i contenuti delle strofe, ci limitiamo a muovere a ritmo le labbra, seguendo l’artista da noi prediletto. La melodia su cui canterà l’Europa nei prossimi anni rischia però di esserci del tutto estranea: perfino il playback potrebbe non bastare.

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