Ho pensato  a lungo che il premio Nobel per l’economia Milton Friedman avesse ragione, ma ho cambiato idea. Ora non penso più che l’impresa sia soltanto l’aggregazione volontaria di contratti che riflette la libertà degli individui di scegliere.

Nella realtà, le aziende sono entità potenti capaci di esercitare una enorme influenza nella società. Poiché le imprese si sono sentite dire, da Milton Friedman più di tutti, che la loro unica responsabilità era fare profitti, hanno interiorizzato questo principi nei loro processi interni. In particolare, hanno fatto propria l’idea che una politica nominalmente democratica è in balia di istituzioni spietate.

Questa è una delle ragioni per cui oggi gli Stati Uniti si ritrovano con un presidente che sfida la democrazia stessa.

Nel suo famoso articolo del 1970, Friedman ha sostenuto che le aziende hanno come unica responsabilità sociale giocare secondo le regole del gioco “che sono impegnarsi in una competizione aperta e libera senza inganni o frodi”. Ma questa è una visione troppo restrittiva delle “regole del gioco”.

Le regole del gioco dovrebbero includere tutto cioè che la società fa per assicurare che le attività delle imprese, siano coerenti con i suoi obiettivi di fondo: promuovere concorrenza e innovazione, proteggere la salute pubblica, tutelare l’ambiente, mettere al riparo i lavoratori da abusi, garantire un gettito fiscale sufficiente per raggiungere obiettivi decisi democraticamente. Le regole del gioco, insomma, sono tutto cioè che una società fa per organizzarsi attraverso politica e diritto.

Ma chi decide le regole del gioco? Sappiamo bene che una delle forze dominanti è il potere del denaro: lobbisti, donatori, finanziatori di ricerche accademiche, giocano un ruolo decisivo nel creare le regole del gioco politico.

Come ci ha insegnato Mancur Olson, gli interessi concentrati e dotati di grandi risorse vincono sempre. Le grandi aziende non sono semplice giocatori. Giocano secondo regole che hanno in gran parte scritto loro.

Insomma, la visione di Friedman era fintamente naif. Se il gioco è politico, allora l’obbligo sociale per le imprese è usare il loro potere per creare un gioco positivo, invece che uno negativo. Così un gioco positivo?

E’ un gioco in cui le aziende non sponsorizzano spazzatura scientifica sul clima e l’ambiente, non uccidono centinaia di migliaia di persone incentivando la dipendenza da oppiacei, non fanno lobbying per ottenere regimi fiscali che permettono loro di nascondere i loro profitti nei paradisi fiscali, nel quale il copyright non viene esteso all’infinito, e nel quale non cercano di neutralizzare ogni forma di concorrenza e non si battono contro misure che proteggono i lavoratori dalla precarietà.

Questi fallimenti e molti altri hanno indebolito il sistema democratico al punto che rischiamo di trovarci in una dittatura. C’è un filo diretto tra Milton Friedman e Donald Trump.

Dire le cose sottovoce

Come mai? Chiedetevi come si fa a convincere le persone ad accettare le idee di Milton Friedman se queste, in pratica, spingono le rendite e i profitti verso l’alto della scala sociale e la disperazione verso il basso. In una democrazia con suffragio universale, i libertari disposti a questo equilibrio sono una minoranza. Per vincere devono impegnarsi in battaglie collaterali: guerre culturali, razzismo, misoginia, nativismo, xenofobia e nazionalismo.

Ovviamente molte di queste cose non vengono dichiarate esplicitamente, ma con perifrasi: “Noi non siamo in favore della discriminazione, ma la tua preziosa libertà deve includere il diritto di discriminare”.

La crisi finanziaria e il salvataggio di quelli il cui comportamenti hanno causato il disastro ha reso ancora più difficile vendere agli elettori l’idea del mercato senza regole, come dimostra il fallimento del candidato dei Repubblicani nel 2012, Mitt Romney.

Anche i più libertari dentro il partito Repubblicano hanno capito che bisogna nascondere le battaglie per il mercato sotto altri temi. Trump è semplicemente la persona più adatto a farlo. Ovviamente il suo nazionalismo, protezionismo, la sua demagogica, le sue menzogne e lo spudorato assalto all’idea di elezioni libere e competitive mettono un po’ a disagio l’elite delle grandi aziende. Ma se in cambio ottengono tasse più basse e meno regole, che importa? Certo, la politica democratica rischia di essere avvelenata per sempre, ma chi se ne frega?

Torno al mio argomento principale: non si può dire che le aziende si devono limitare a giocare secondo le regole del gioco, quando sono loro a creare le regole. E quando il sistema è corrotto. Che fare, dunque?

Le aziende non sono persone

Il primo punto è riconoscere che le aziende non sono persone, non sono cittadini e non hanno diritti politici di alcun genere. La personalità giuridica delle aziende è una finzione motivata esclusivamente da ragioni economiche.

Alle aziende non dovrebbe essere permesso di dare soldi alla ai partiti, di finanziare campagne elettorali o di impegnarsi in alcun tipo di attività politica. E’ accettabile che facciano lobbying a favore dei propri interessi, ma devono essere completamente trasparenti su quello che fanno. Tracciare queste linee è difficile ma essenziale affinché la democrazia sopravviva.

Le aziende devono giocare secondo le regole del gioco, ma bisogna evitare in tutti i modi che siano loro a scriverle.

Non mi aspetto che loro facciano la cosa giusta nella sfera pubblica. Ma noi dobbiamo impedire loro di fare quella sbagliata.

Fare la cosa giusta è il compito dei cittadini.

Martin Wolf è il capo dei commentatori economici del Financial Times. Questo articolo è uscito in inglese sul sito ProMarket.org dello Stigler Center (University of Chicago – Booth School of BUsiness) nell’ambito di una serie dedicata ai cinquant’anni dalla pubblicazione dell’articolo The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits sul New York Times Magazine

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