La valutazione formativa non è un esperimento di laboratorio, ma è una pratica sociale, che viene inevitabilmente “catturata” dalla logica delle pratiche sociali, scolastiche e non, e da un campo di interpretazioni collettive.
Da quest’ultimo punto di vista, va considerato che il dibattito pubblico sulla scuola ha spesso un tipico carattere che chiamerei “pantografico”: una parte – la riforma di un aspetto organizzativo o didattico – viene, per sineddoche, presentata come il tutto – un cambiamento di paradigma caricato di forti connotazioni politiche, in genere fondate sull’opposizione progresso/conservazione.

In questo contesto è naturale che il voto sia stato feticizzato, tanto dai suoi difensori quanto dai suoi detrattori. Per i primi rinunciarvi equivarrebbe a rinunciare alla valutazione – mentre il voto ne è solo una dimensione –, ma i secondi ne fanno la causa di troppi mali.

L’osservazione che il voto “nudo e crudo” sia uno strumento povero da un punto di vista informativo è vera e condivisibile, come anche l’idea che una descrizione dei punti di forza e di debolezza consenta di usare la valutazione come monitoraggio degli apprendimenti e feedback per migliorarli. Ma è davvero tutto così semplice?

Nel senso comune e nella percezione di alcuni colleghi che se ne sono fatti promotori, la valutazione formativa viene presentata come uno strumento in radicale opposizione ai voti e capace, un po’ troppo taumaturgicamente, di far superare le difficoltà dell’apprendimento.

L’aspetto motivazionale, quasi incitatorio, della valutazione ne ha sopravanzato e offuscato l’aspetto descrittivo - indicare ciò che va e ciò che non va in una prova –, riducendosi al divieto tout court di ricorrere ai voti negativi: cancellarli basterebbe a cancellare l’ansia e una “umiliazione” congenita nel fatto stesso di dare un voto.

A questo proposito il caso più emblematico, ma non unico, è l’articolo di Annalena Benini su Il Foglio del 9 novembre scorso. Se si seguisse questa logica, però, anche l’indicazione dei punti di debolezza della valutazione formativa sarebbe a rigore problematica. Se una versione di latino o un progetto di arte davvero non vanno, l’insegnante ha il dovere di dirlo.

Si è creata una grande confusione tra il piano docimologico e quello psicologico, con quest’ultimo peraltro ridotto alla dimensione di incoraggiante «cultura terapeutica». L’effetto è quello di una rimozione delle difficoltà, in perfetta sintonia con una società che si affanna a rimuovere il «negativo» dalle nostre esistenze.

Il problema

L’equivoco sta nella sovrapposizione semplicistica tra motivazione/demotivazione allo studio e attribuzione del voto. In realtà la motivazione a fare o non fare qualcosa deriva dalla somma di molti fattori: capacità e attitudini personali, l’interesse per l’oggetto di studio, la percezione di sé, la dimensione temporale (posso momentaneamente perdere la spinta a impegnarmi in qualcosa che fino a ieri amavo profondamente).

Inoltre le motivazioni intrinseche non si danno programmaticamente: vi si arriva con fatica e per tentativi, ed esse spesso non sono trasparenti nemmeno a noi stessi. C’è un’ingenuità “illuminista” di fondo nel credere che lo studente viva con disagio la valutazione solo perché legata al voto. Nelle nostre vite il rapporto tra azioni socialmente mimetiche (“estrinseche”) e moventi personali (“intrinseci”) è contraddittorio e sfuggente, come la loro valutazione da parte di altri.

Il voto ha davvero solo il significato che gli si attribuisce a scuola – sommativo, classificatorio – o in esso “precipitano” molte attribuzioni di senso della società nel suo complesso? La dimensione competitiva della performance, il moltiplicarsi di forme di valutazione individuali e di sistema in ogni ambito delle nostre vite, sono ormai questioni generalizzate all’intera società e dipendono da profonde trasformazioni socio-economiche.

Non è un argomento sulla futilità del cambiamento dentro la scuola: credo che essa debba agire sempre in controtendenza rispetto, ad esempio, alla riduzione dei suoi compiti a quello di formazione di “capitale umano”. Ma mettere sul banco degli imputati per questo soltanto i voti scolastici assomiglia al voler debellare un’organizzazione criminale arrestando i pesci piccoli.

Su questo punto mi pare che ci sia un’ulteriore confusione: si interpreta, indistintamente, la “cattiveria” del voto sia come espressione di tradizionale autoritarismo, sia come istigazione ansiogena alla competizione e alla prestazione efficiente. Non c’è bisogno di citare Lacan e il suo discorso del padrone e del capitalista, per comprendere che così si sovrappongono i caratteri di una società e di una scuola (in buona parte) passate a quelle attuali.

Un metodo più duttile

C’è un ultimo aspetto importante. La valutazione formativa e la sua formalizzazione in rubriche, descrittori di competenze coincidono necessariamente? Una restituzione informale e orale, entro il rapporto tra docente e studente, è assai più duttile.

Per accettare questa informalità, però, bisognerebbe fidarsi degli insegnanti e ho l’impressione che il nostro mandato sociale sia in crisi. Lo dimostra il diffondersi di una “pedagogia difensiva” (sul modello della “medicina difensiva”), fatta di una moltiplicazione di griglie, piani e relazioni, con cui gli insegnanti stanno imparando a tutelarsi dal rischio di defatiganti contestazioni da parte delle famiglie.

Peraltro la scuola, oltre che un luogo di apprendimento e un’istituzione, è anche un apparato burocratico. Non produce verbali, circolari, pagelle perché sia intenzionalmente sadica, ma perché così funziona un apparato: attraverso la rendicontazione scritta.

Quanto più si pretenderà di sistematizzare la valutazione formativa, tanto più essa si burocratizzerà. Non si possono biasimare gli insegnanti se su questo aspetto temono un aggravio delle incombenze, cresciute negli ultimi anni con un’accelerazione che chi non lavora nella scuola faticherebbe a immaginare.

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