Chissà se anche oggi, 25 aprile, in un eventuale discorso pubblico all'altare della Patria dove sarà con Sergio Mattarella, Giorgia Meloni metterà Tina Anselmi nel suo Pantheon o se dalla biografia di una delle donne che ha aperto la strada al genere femminile nelle istituzioni preferisce scegliere à la carte. Wim Wenders ha sostenuto l'importanza del luogo dove si dicono le cose.

Dare il nome esatto alle cose

La presidente del Consiglio ha citato la Anselmi in parlamento, durante il discorso di insediamento, tra quelle che «hanno osato per impeto, per ragione o per amore» e «hanno rotto il pesante tetto di cristallo sopra le nostre teste», la prima ad aver ricoperto la carica di ministro della Repubblica. Ma è stata anche la partigiana, così anche andrebbe ricordata magari nel giorno più consono, con il nome di battaglia “Gabriella” della brigata “Cesare Battisti”. E non avrebbe alcun pudore, se fosse ancora in vita, così come non lo ha mai avuto in passato, a dare il nome esatto alle cose, ad andare in piazza e definire il giorno della Liberazione dal fascismo e dal nazismo. Impresa che sembra ardua per molti esponenti di Fratelli d'Italia, tra amnesie, arzigogoli retorici, giustificazionismi, minimizzazioni, paralisi vocali. O fughe all'estero come quella del presidente del Senato.

Ignazio La Russa ha sostenuto gigioneggiando sui termini che «nella Costituzione non c'è la parola antifascismo», sapendo benissimo che c’è una frase assai più prescrittiva nella sua XII disposizione transitoria e finale con cui si vieta la ricostruzione del partito fascista. La Russa trascorrerà la festa italiana in Repubblica Ceca ad omaggiare Jan Palach, certo un combattente per la libertà dal comunismo ma che nulla ha a che spartire con il 25 aprile, e andando in visita a un lager nazista, quando, se proprio avesse voluto, sarebbe stato assai più comodo non passare il confine, fermarsi a Trieste, al campo di concentramento della Risiera di San Sabba.

La piazza è il luogo dove stare

Per evitare l'ennesimo inciampo sulla valutazione di un passato che non passa, Giorgia Meloni sembra che si sia sottoposta alla fatica di richiamare all'ordine i suoi perché presenzino a qualche cerimonia (La Russa farà una capatina, pare, all'altare della Patria prima di involarsi) e, se la cosa non fosse seria, assomiglia alla Jamie Lee Curtis del film comico Un pesce di nome Wanda quando obbliga Kevin Kline a scusarsi con John Cleese ma la frase «sono molto dispiaciuto» fatica a fiorire sulla bocca del finto pentito. Dire “fascismo”, esattamente come per Kline, provoca improvvise balbuzie tra diversi esponenti della maggioranza. Forse è stata anche salutata con troppa indulgenza la concessione di Matteo Salvini che «festeggerà a casa lavorando» quando è la piazza il luogo pubblico di espressione della politica. Soprattutto in un caso come questo.

Per rinfrescare la memoria ai più duri di comprendonio su cosa significa il 25 aprile, stasera Raiuno in prima serata manda in onda Tina Anselmi, una vita per la democrazia, con Sarah Felberbaum, soggetto di Anna Vinci, sceneggiatura di Monica Zapelli, regia di Luciano Manuzzi. Basterebbe la prima scena per illuminare con la valenza partigiana la postura militante della «vita per la democrazia» della protagonista. Tina ha 17 anni il 26 settembre del 1944 quando i nazifascisti costringono la popolazione di Bassano del Grappa, tra cui gli studenti, ad assistere all'impiccagione di 43 prigionieri catturati durante un rastrellamento senza che avessero alcuna responsabilità in atti di guerra. Tra questi, Lino Canonica, il fratello della compagna di banco della Anselmi, che qui comincia la trasformazione nella staffetta “Gabriella”. Il tutto all'insaputa della famiglia (il padre Ferruccio è interpretato dallo straordinario Andrea Pennacchi) che, benché di sinistra, avrebbe disapprovato la scelta temendo per la sua vita.

È ancora una ragazza quando viene nominata tra i responsabili delle trattative con i tedeschi perché non ci siano rappresaglie durante la ritirata quando è ormai scontato l'esito del conflitto. Sarà quell'esperienza a dare l'imprinting al suo impegno nella Democrazia cristiana, a battersi con tenacia per i diritti delle donne in un mondo maschilista. A costruire il suo capolavoro, da responsabile del dicastero della Salute, il varo del servizio sanitario nazionale, con il contestuale ritiro dal mercato di migliaia di medicinali inutili e persino pericolosi, facendo piangere Big Pharma. Benché profondamente cattolica, non ebbe tremori quando dovette firmare, sempre da ministri della Salute la legge 194 sull'interruzione volontaria della gravidanza, convinta com'era della necessità di separare le proprie credenze religiose dalla laicità necessaria come prerogativa dello Stato e siamo lontani dalla triade tornata in voga “Dio, patria, famiglia”. Né tentennò quando la comunista Nilde Iotti la propose come presidente della commissione sulla Loggia massonica P2, sfidò i poteri forti e occulti pagando, e sapendo che avrebbe pagato, il costo di un isolamento persino nel suo stesso partito.

Tutto questo racconta il film. Una coerenza di fondo durante l'intera esistenza, un'indipendenza di giudizio che le valse l'appellativo di “Tina vagante”, senza nessuna scissione tra la Tina e la partigiana Gabriella.

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