Federico Rampini ha riproposto sul Corriere della Sera il tema della differente reazione di fronte al virus fra Oriente ed Occidente. Lasciando da parte le teorie che proliferano sul web, l’immediata reazione dell’opinione pubblica informata di fronte ad un tale divario di contagi, ospedalizzazioni e decessi è di solito la frase-rifugio: «Ma quelle sono dittature».

Si ha gioco facile a dimostrare, come fa Rampini, che il caso non riguarda soltanto la Cina, ma comprende praticamente tutta l’area del cosiddetto Far East: Giappone, Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Singapore e bisognerebbe allargare il campo persino all’Australia.

Il caso del Giappone è clamoroso: mentre qui si è alle prese con l’incapacità di frenare la corsa della variante Omicron, lì si calcolano circa 100 casi di infezioni al giorno su 126 milioni di abitanti e la variante Delta è quasi scomparsa. Cosa ha determinato un simile divario?

Per quanto riguarda la variante venuta dall'India il contributo fondamentale è venuto dai vaccini. Lo dimostra l'andamento del virus in India stessa, così come in Giappone, che ad agosto contava uno dei tassi di vaccinazione più bassi fra i paesi sviluppati.

Numeri poi cresciuti esponenzialmente, spinti dal rischio di non poter disputare le già rinviate Olimpiadi. Oggi il Giappone è uno degli Stati più vaccinati al mondo.

La  Corea del Sud, ancor più virtuosa del Giappone, per tutta l’estate 2020 ha contato soltanto una media inferiore dei mille casi attivi sparsi in un territorio di 50 milioni di persone.

Un ruolo l’ha giocato l’abitudine alle epidemie: negli ultimi vent’anni nell’area orientale e mediorientale hanno avuto: Sars-Covid1, Mers e aviaria, cosa che li ha abituati a tutte le ormai note misure di prevenzione.

A questo si devono aggiungere piani pandemici aggiornati e collaudati. Però, nel continente americano, nel 2009, si è avuta l’influenza suina, che ha causato migliaia di morti. Perché nessun principio di precauzione sanitaria è stato introiettato?

Un’altra spiegazione, che lo stesso Rampini evidenzia, ci sollecita ulteriormente: dobbiamo constatare un ritardo tecnologico e infrastrutturale che sancisce come nuovo epicentro del mondo avanzato l’Oriente.

Hai voglia a denunciare i comportamenti individuali, ma se non hai sistemi di tracciamento adeguati, un paese cablato per permettere smart working, se hai strutture ospedaliere obsolete, rete ferroviaria e di trasporti urbani con capacità ridotta, anche con tutto l’impegno individuale non ne vieni a capo.

Però il Vietnam, sostanzialmente immune da Sars-Covid2 prima dell’avvento della variante delta, ha fatto comunque meglio di noi. Eppure i suoi livelli tecnologici, infrastrutturali e sanitari non sono paragonabili a quelli di Cina, Corea del Sud o Giappone.

Rampini suggerisce che dovremmo recuperare anticorpi contro «l’iperindividualismo, l’egocentrismo, l’ossessione per i diritti dei singoli, la secessione dalla comunità e la sfiducia nel principio d’autorità».

Parole che sembrano un manifesto della propaganda antidemocratica portata avanti dalla stessa Cina, da cui Rampini prende subito le distanze. Ma è comunque pericoloso indicare principi antidemocratici come rimedio ai mali della democrazia.

Oggi manca il valore democratico per eccellenza: la coscienza critica. Termine frainteso con un atteggiamento d’opposizione a prescindere, ma che resta la sola bussola che consente all’individuo di assumere opinioni consapevoli rispetto ai problemi che lo circondano. 

È questa mancanza a rendere le persone vulnerabili rispetto ad un apparato di propaganda orchestrato da soggetti che approfittano di ogni crisi per risalire la china politica.

Che autorevoli intellettuali prestino il fianco a questa propaganda è forse il sintomo più grave dello stato delle nostre democrazie.

© Riproduzione riservata