La morte di Simone Mattarelli merita ed esige chiarezza. La vita di Simone lo richiede, la richiesta di verità della famiglia non può cadere nel vuoto.

Sono le ore 2.06 della notte tra il 2 e 3 gennaio 2021 quando Simone ha alle calcagna i carabinieri perché non si è fermato all’alt: «Papà, l’ho fatta grossa, non mi sono fermato al posto di blocco, sono inseguito dai carabinieri, cerco di nascondermi lì da te. Li ho fatti troppo incazzare, se mi prendono quelli mi ammazzano», dice al telefono al padre durante la sua corsa in auto.

Pressoché incensurato (un ritiro di patente anni prima), Simone era un bravo ragazzo, appassionato di motori, faceva il gommista. Non aveva alcun motivo per comportarsi in quel modo. Certo, aveva violato il coprifuoco perché, per andare a mangiare un panino al McDonald’s di Lentate sul Seveso, aveva fatto tardi.

Erano le 23.30 quando ha incontrato i carabinieri che, ovviamente, lo volevano fermare per fargli la multa prevista dalle norme sul lockdown. Aveva assunto cocaina, e questo non lo ha aiutato. Era ovviamente disarmato e del tutto inoffensivo. Fatto sta che, nell’inseguimento, l’auto dei militari finisce fuori strada danneggiandosi. Simone imbocca una strada sterrata e poi abbandona l’auto all’imbocco del boschetto di Origgio, proseguendo la fuga a piedi.

Sono le 2.42: il padre, spaventato, riesce a ricontattare telefonicamente Simone, con il quale ha una conversazione e capisce che il figlio non è più alla guida del veicolo perché ne percepisce chiaramente il respiro affannato. Sente attraverso il telefono di suo figlio dei colpi di pistola, e Simone gli riferisce: «Lo senti? Mi sparano dietro, papà. Ti ho mandato la posizione». Simone non vuole morire. Tantomeno suicidarsi. Corre perché ha paura.

I militari riferiranno poi di aver esploso ben otto colpi di pistola a scopo intimidatorio. Bossoli e ogive verranno, in seguito, cercati a lungo senza successo. Alle 4.30 Luca Mattarelli, padre di Simone, raggiunge la caserma dei carabinieri di Desio per avere notizie del figlio. Mentre sta parcheggiando, arrivano un carro attrezzi che trasporta una macchina dei carabinieri e l’auto di Simone guidata da uno sconosciuto e due militari sporchi di fango.

Ma Simone non c’è.

Verrà ritrovato cadavere, secondo le fonti ufficiali, soltanto alle ore 15.45, all’interno di un capannone industriale, non lontano dai luoghi delle ricerche dei proiettili esplosi e dei bossoli, impiccato a un macchinario, con la sua cintura dei pantaloni. Spariti il giubbotto che indossava e il suo cellulare. Mistero sulla loro fine.

I carabinieri acquisiscono di iniziativa le telecamere di sorveglianza del capannone industriale, ma soltanto 11 su 14, per ragioni di privacy, dicono. I filmati di quella notte riprendono, tuttavia, dei movimenti di persone all’interno dello stabile, un’ora prima del ritrovamento del cadavere.

Una, in particolare, viene ripresa nell’atto di uscire con in mano un borsone. Nessuna indagine verrà svolta per identificarla con certezza e per comprenderne motivo e scopo della sua presenza in quei luoghi prossimi al corpo un’ora prima del suo ritrovamento ufficiale.

La comoda verità

Mattarelli si è suicidato. Lo stabiliscono, certi, i magistrati. Tutta colpa della cocaina. Un gesto estremo compiuto all’esaurimento dell’assunzione della sostanza, in stato confusionale. Quel ragazzo lo avrebbe compiuto in una conseguente improvvisa crisi depressiva. Incredibile.

La tesi, però, ora trova smentita negli accertamenti compiuti dal tossicologo della famiglia, che rileva una quantità non trascurabile della sostanza stupefacente nel sangue del ragazzo, scientificamente incompatibile con il quadro depressivo maniacale sostenuto dalla procura di Busto Arsizio.

Simone era tutt’altro che depresso, viceversa versava in uno stato “intermedio” tra l’euforica eccitazione e comunque ben lontano da quello depressivo-maniacale. Simone non aveva alcun motivo per suicidarsi.

Servirebbero pagine e pagine per elencare tutti i lati oscuri della vicenda. Basti solo pensare che, riguardo l’impiccamento suicidario, quel ragazzo lo avrebbe posto in essere stringendo la propria cintura dei pantaloni attorno al collo, annodata nella sua parte anteriore con le proprie mani, appoggiando saldamente al pavimento entrambi i piedi.

Proprio i palmi delle mani portano ferite evidenti con versamento di sangue. Antecedenti, quindi, la sua morte. Un cadavere non sanguina. È fatto noto. Sangue è presente sul volto del ragazzo, ma totalmente assente sulla cintura impugnata da Simone per strangolarsi. Il corpo presenta segni evidenti di traumi sul collo, sulla bocca e sulla parte alta della schiena.

Tutte circostanze rilevate e riscontrate dai consulenti della famiglia, ma anche dalle fotografie scattate. Sono state ignorate dai magistrati.

Ma v’è di più! Sotto le unghie delle mani del ragazzo sono state repertate tracce evidenti di dna appartenente a persona diversa. In quanti casi di omicidio è stata decisiva la prova del dna ritrovato sui corpi delle vittime? Tutto ciò non vale ulteriori indagini?

Inutili gli sforzi dei familiari, che hanno il sacrosanto diritto a indagini che possano fugare ogni ombra sulla morte di Simone. Ci ribelliamo all’idea che l’autorità possa rimanere inerte di fronte a tutto questo.

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