Il gup Roberto Ranazzi ha disposto ieri la trasmissione degli atti al governo italiano per verificare la possibilità di interloquire ancora con le autorità egiziane e verificare l’esito della rogatoria che chiedeva di conoscere i domicili dei quattro agenti della National Security Agency egiziana indagati, a vario titolo, per l’omicidio e il sequestro del giovane ricercatore di Fiumicello trovato senza vita il 3 febbraio del 2016 nella periferia del Cairo. Il gup ha inoltre disposto nuove ricerche dei quattro 007 affidandole ai carabinieri dei Ros con l’utilizzo anche di fonti aperte. Una nuova udienza è stata fissata per il prossimo 11 aprile.

La decisione accoglie le istanze della procura di Roma che ha chiesto di sollecitare il governo sulle rogatorie alle autorità del Cairo e di capire se il ministero della Giustizia italiano ritenga di poter procedere alla notifica degli atti in via diretta e non diplomatica. Così il processo per l’omicidio di Giulio Regeni resta appeso a un filo.

Un filo che le autorità egiziane hanno deciso di spezzare dopo aver azzerato completamente la collaborazione negli ultimi due anni e non avendo mai fornito quello che manca per lo svolgimento di un regolare processo secondo la procedura penale italiana: gli indirizzi dei quattro agenti della Nsa ai quali notificare il provvedimento.

I loro nomi sono noti ormai da tempo: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono tutti accusati di reato di sequestro di persona pluriaggravato, e per quanto riguarda Sharif anche di concorso in lesioni personali aggravate e concorso in omicidio aggravato.

Proprio a causa dell’assenza dei loro domicili, il 14 ottobre scorso il processo aveva fatto un passo indietro. La terza Corte d’Assise di Roma aveva annullato il primo rinvio a giudizio poiché non era possibile accertare «l’effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati, né della loro volontaria sottrazione al procedimento». Una decisione che aveva ribaltato quella del gup Pierluigi Balestrieri, che il 25 maggio scorso aveva evidenziato, invece, che «la copertura mediatica capillare e straordinaria ha fatto assurgere la notizia della pendenza del processo a fatto notorio».

Le due interpretazioni avevano trasformato il caso in una discussione in punta di diritto. La decisione di ieri lo riporta sul piano politico e accende ancora una volta i riflettori sulle relazioni tra Italia e Egitto. Perché mentre Il Cairo non collabora e blocca il procedimento, Roma continua la sua politica low profile fatta di trattative a “fari spenti”. Una linea che sino a ora ha portato soltanto a risultati incerti e tardivi.

Il paradosso

Ma se la pressione diplomatica scarseggia, i rapporti tra Italia e l’Egitto procedono a gonfie vele. Il gruppo Eni si è aggiudicato dal ministero del Petrolio egiziano cinque nuove licenze esplorative, quattro delle quali in qualità di operatore, nell’offshore e onshore egiziano, a seguito della positiva partecipazione al bando Egypt International Bid Round for Petroleum Exploration and Exploitation 2021.

Come affermato in un comunicato della compagnia del cane a sei zampe, «le licenze sono collocate all'interno di bacini prolifici con un contesto geologico petrolifero collaudato in grado di generare idrocarburi liquidi e gassosi». L’obiettivo è quello di trovare un giacimento come quello di Zohr, la più grande scoperta di gas mai realizzata in Egitto e nel mar Mediterraneo fatta dalla multinazionale con sede a San Donato Milanese nell’autunno del 2015.

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