La svolta giuridica sulla gestione della pandemia non è arrivata dal cuore dello Stato. È arrivata dalla periferia: da Sassari. C’è voluto un caso minore: quattro morti sospette tra marzo e aprile 2020 all’Ospedale Civile di Alghero. Il dirigente sanitario, accusato di non aver adottato misure adeguate per proteggere i lavoratori dal contagio da Covid-19, è stato assolto dal Tribunale di Sassari. Ma il sostituto procuratore, Paolo Piras, ha deciso di non voltarsi dall’altra parte. Invece di fare appello, ha presentato ricorso immediato per Cassazione, portando la questione direttamente alla massima autorità giurisdizionale. La risposta definitiva è arrivata il 10 aprile 2025. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, presiedute da Margherita Cassano con relatore il consigliere Andreazza, hanno emesso una pronuncia destinata a segnare la giurisprudenza: il reato di epidemia colposa può essere configurato anche in forma omissiva.

È così che il vecchio articolo 438 del codice penale – scritto nel 1930, quando la parola “diffusione” evocava provette e germi – è stato reinterpretato alla luce di una pandemia moderna, dove a far dilagare il virus può bastare una zona rossa mai istituita, un ospedale riaperto senza protezioni, un piano pandemico mai aggiornato o misure di protezione mai adottate. Anche il non aver fatto ciò che si aveva l’obbligo di fare può costituire reato.​ Questa decisione rappresenta un punto di svolta nell'inquadramento giuridico della gestione della pandemia da Covid-19, aprendo la strada alla riapertura di procedimenti precedentemente archiviati e rafforzando la legittimità delle indagini condotte dalla Procura di Bergamo.​Una sentenza che riscrive tutto. E che pesa, oggi, come un macigno sulle archiviazioni che hanno chiuso in fretta il dossier più doloroso della nostra storia recente.

Alibi e omissioni

All’inizio fu lo tsunami. Un’ondata imprevedibile, violenta, che avrebbe travolto tutto e tutti. È questa la metafora scelta dai dirigenti di Regione Lombardia, da Attilio Fontana a Giulio Gallera, per spiegare la catastrofe della primavera 2020. Lo hanno ripetuto più volte: nessuno poteva immaginare, nessuno poteva essere pronto. La retorica dell’imprevedibilità è servita - e continua a servire - per costruire un racconto in cui il virus è stato una forza naturale ingestibile, un nemico inafferrabile, una sciagura che non ha colpevoli. Poi, a distanza di anni, è arrivata la narrazione dell’errore genetico. Come lo “studio Origin” del Mario Negri, una ricerca scientifica che ha ipotizzato che una particolare predisposizione genetica, ereditata dall’uomo di Neanderthal, potesse aver contribuito a rendere alcune popolazioni padane più vulnerabili al virus. Una spiegazione suggestiva, rassicurante, ma pericolosamente deresponsabilizzante. Perché se la causa è nei geni, allora tutto il resto - le decisioni mancate, i protocolli disattesi, le zone rosse mai istituite - diventa marginale. Quando la scienza assolve, la politica si mette al sicuro. E invece no. Perché c’è una differenza abissale - politica, morale e giuridica - tra ciò che non si poteva sapere e ciò che si sapeva benissimo. Tra ciò che era imprevedibile e ciò che era prevedibile e previsto. Tra l’impossibilità di agire e il non aver agito.

Le omissioni, appunto. Quelle che l’inchiesta di Bergamo ha provato a mettere in fila. Quelle che la Cassazione ha ora riconosciuto come penalmente rilevanti. «L’atto politico è sindacabile dal punto di vista giudiziario?» si chiede l’ex procuratore di Bergamo Antonio Chiappani, nell’intervista pubblicata da Domani. E poi aggiunge: «Se non è colpa di nessuno, di chi sarà? Del buon Dio?». In quella domanda c’è tutta la rimozione di questi anni. E il motivo per cui ora, finalmente, il diritto torna a guardare in faccia la storia.

Il punto, oggi, non sono solo le scelte politiche. Il punto è un intero sistema che ha scelto - per anni - di non scegliere. L’inchiesta della Procura di Bergamo, con migliaia di pagine e decine di testimonianze, ha fatto emergere un dato sconvolgente nella sua semplicità: l’Italia non era preparata ad affrontare una pandemia. Non perché non ne avesse mai vissuta una. Non perché non sapesse. Ma perché non aveva fatto nulla per farsi trovare pronta. Il piano pandemico nazionale era fermo al 2006. Mai aggiornato. Le scorte strategiche di dispositivi di protezione individuale erano inesistenti. Nessuna ricognizione effettiva sui posti letto in terapia intensiva. Nessuna linea guida tempestiva per i medici di base. Nessun investimento serio sulla medicina territoriale. Nessuna valutazione del rischio. Nessun principio di precauzione.

Sistema vulnerabile

La cassaforte sanitaria italiana, semplicemente, era vuota. Il personale abbandonato. I cittadini impreparati. Le decisioni, quando arrivarono, furono tardive. Oppure non arrivarono affatto. Il non fare - in questo caso - ha prodotto un effetto diretto, misurabile, tragico. Ha fatto la differenza tra chi si è ammalato e chi no, tra chi è stato curato e chi è morto. E non è solo colpa della politica nazionale. È una catena di mancanze, costruita negli anni da funzionari, dirigenti, tecnici, ministeriali e regionali. All’interno di tutte le articolazioni dello Stato. A tutti i livelli. Nessuno ha fatto ciò che doveva fare e per cui era pagato da noi cittadini. Si è mentito all’Organizzazione Mondiale della Sanità e all’Unione Europea a cui è stato comunicato che il piano pandemico italiano era aggiornato. Ma non era vero. E si è lasciato che il sistema si illudesse di essere efficiente, mentre in realtà era profondamente vulnerabile.

Il caso della Lombardia è emblematico. Considerata per anni un’eccellenza, ha mostrato durante la pandemia tutte le sue crepe: ospedali ingolfati, medicina del territorio desertificata, decisioni fondamentali (come la chiusura della Val Seriana) rimandate fino all’irreparabile. Si è invocata l’eccezionalità. Ma l’eccezione è stata la conseguenza della rimozione, della negligenza, della disorganizzazione. Erano scelte politiche? Era sciatteria amministrativa? Era il peso della burocrazia? Forse tutto questo insieme. Ma una cosa è certa: si è omesso. E l’omissione, oggi, non è più una zona grigia. È diventata, anche giuridicamente, terreno di responsabilità.

Ed è così che l’unica domanda che andava davvero posta alla Corte Suprema è arrivata dalla periferia. Non da Roma, non da Milano, non dal Tribunale dei Ministri di Brescia. Da un piccolo caso, da un ospedale di provincia, da un magistrato che ha scelto di andare fino in fondo. Da lì è nata una pronuncia che rischia ora di travolgere tutte le archiviazioni troppo frettolose, tutti i fascicoli chiusi in nome della ragion di Stato, del realismo politico, dell’opportunità giudiziaria. Il punto non è - e non è mai stato - il numero delle vittime. Il punto è la dimensione dell’omissione. Quando le omissioni sono sistemiche, quando si traducono in scelte mancate, piani non aggiornati, silenzi colpevoli, e producono migliaia di morti - sei mila solo nella Bergamasca in quaranta giorni - allora archiviare non è una scelta tecnica. È una responsabilità anch’essa. Oggi, grazie a questa pronuncia, il tempo della verità può finalmente riaprirsi. Le motivazioni della Cassazione arriveranno. Ma quello che è accaduto non è solo una svolta interpretativa.

È una porta che si apre. Sui procedimenti civili e penali ancora in corso. Sulle indagini rimaste sospese. Forse - se ci sarà volontà e coraggio - anche sui fascicoli già archiviati in nome della discrezionalità politica. È anche una chiamata alla responsabilità per tutti gli attori del sistema giustizia. Perché ora un precedente c’è. Non ci sono più alibi. E infine, questa pronuncia è un monito per la politica: la lezione di Bergamo non può essere ridotta a una commemorazione annuale. Va tradotta in riforma. In programmazione. In prevenzione vera.

Il Servizio Sanitario Nazionale va ricostruito, non celebrato. Con risorse, con visione, con coraggio. Perché la prossima pandemia non può trovare l’Italia nelle stesse condizioni di quella precedente. La giustizia, questa volta, non è arrivata troppo tardi. È arrivata, semplicemente, dal punto più inatteso. E ora non possiamo più permetterci di ignorarla.

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