La gara delle interpretazioni sull’esito del referendum continuerà ancora, ma su un punto si può già essere certi: le tematiche poste, almeno sul fronte lavoro, non resteranno al centro del dibattito pubblico. È questo uno dei principali limiti della campagna referendaria: non aver saputo connettere i contenuti dei quesiti alla quotidianità di lavoratori e imprese.

Si è creduto che un sindacato forte come la Cgil, in rinnovata sintonia con partiti progressisti, potesse trascinare con sé “la massa” dei lavoratori. Ma quella massa, semplicemente, non esiste più. O meglio, esiste in forma frammentata, composita, attraversata da identità che spesso prescindono dalla condizione lavorativa. La cinghia di trasmissione che si è rotta non è tanto quella tra partito e sindacato – che in questo caso si è peraltro invertita, con un sindacato promotore e i partiti a traino – quanto quella tra i promotori e il mondo del lavoro.

La personalizzazione della campagna, centrata soprattutto sulla figura di Landini, ha ulteriormente complicato le cose. In assenza di un’unità sindacale (con la Cisl apertamente contraria e la Uil defilata), la campagna ha finito per perdere forza collettiva e segmentare ulteriormente i sindacati stessi. E, allo stesso tempo, la politicizzazione impressa dal governo ai quesiti non ha sorpreso nessuno, ma ha contribuito a rendere il confronto ancora più distante dai vissuti quotidiani.

La personalizzazione può funzionare se sostenuta da una leadership ampiamente riconosciuta. Ma oggi, anche tra i sostenitori più fedeli del sindacato, questa coincidenza tra sindacato e lavoratori è tutt’altro che scontata. Lo dimostra anche l’esito del quesito sulla cittadinanza, dove i voti contrari sono stati superiori rispetto a quelli espressi sui temi del lavoro, pur provenendo dallo stesso bacino elettorale. La campagna ha faticato a mettere al centro del dibattito pubblico i contenuti specifici dei quesiti, schiacciati dalla complessità giuridica e dalla forma stessa del referendum abrogativo. Eppure il lavoro è da anni in cima alle preoccupazioni degli italiani nei sondaggi. Perché allora non riesce a diventare davvero oggetto di discussione pubblica?

Una possibile risposta è che il lavoro, pur restando una preoccupazione diffusa, sia anche una fonte di disillusione. E che, quando si parla di lavoro, le persone pensino in primo luogo a esperienze individuali: salario, orari, crescita professionale, relazioni con i colleghi, equilibrio tra vita e lavoro. Tutti temi che difficilmente passano attraverso uno strumento rigido come il referendum. Ma proprio questi temi dovrebbero essere al centro di una rinnovata azione sindacale. La sfida non è negare l’affermazione dell’individuale, ma provare a rigenerare il collettivo a partire da una conoscenza più profonda e aggiornata dei bisogni. Possiamo accettare o meno, anche culturalmente, che vi sia una crisi del collettivo. Ma il modo per sfidarla non può che partire da qui: dalla capacità di ricostruire legami, dare rappresentanza, parlare una lingua comprensibile. L’alternativa è un circolo vizioso in cui la crisi della democrazia alimenta – e al tempo stesso viene alimentata – dalla distanza crescente tra bisogni reali e loro rappresentazione politica.

In questo quadro, il sindacato resta uno degli ultimi attori in grado, per sua natura, di svolgere una funzione di intermediazione. E proprio per questo è nel mirino: di chi persegue la narrazione populista che vorrebbe cancellare ogni mediazione, e di chi propone un modello tecnocratico che considera ogni altro approccio inefficiente o datato.

La lezione che si può trarre da questo referendum – se di lezione si può parlare – è che il sindacato è il primo soggetto chiamato a innovare strumenti, linguaggi, contenuti. Ed è anche quello che più di altri può beneficiare di una rete sociale ampliata, in connessione con attori (ancora troppo pochi) che promuovono visioni collettive dei bisogni sociali ed economici.

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