Un partito dovrebbe essere una comunità di persone che condividono idee e propositi e si associano per promuoverle. Ancor meglio, si organizzano a tal fine. Ci si può organizzare in molti modi e l’esperienza storica dei partiti offre molti esempi. Tutti distinguono chi è dentro da chi è fuori, chi ne fa parte integrante da chi sostiene, appoggia, simpatizza, finanzia, ma rimane all’esterno perché non formalizza la propria adesione.

Se si condividono e si apprezzano alcuni degli aspetti caratterizzanti di un partito – il progetto, la classe dirigente e la leadership, i “buoni propositi”, l’efficacia nel governo nazionale o locale, l’esperienza diretta dell’impegno disinteressato di tanti militanti, la lunga storia benemerita…  – allora diventa naturale fare un passo oltre il voto o altre manifestazioni di vicinanza: si prende parte.

L’iscrizione segna il discrimine tra una adesione light e una scelta di appartenenza. Negli ultimi anni, in tutta Europa, i partiti hanno incominciato a differenziare le varie modalità di adesione riconoscendo uno status e un ruolo anche a coloro che non si iscrivono ma vogliono manifestare in qualche modo la loro vicinanza.

In Italia, la Lega e i 5Stelle prevedono due livelli di membership in base al livello di attivismo o all’anzianità di iscrizione. Il Pd, invece, pur avendo nel suo statuto un fantomatico “albo degli aderenti”  - coloro che hanno partecipato alle primarie – non fa alcuna distinzione ma, ancor peggio, depotenzia il ruolo dell’iscritto ponendolo più o meno sullo stesso piano di chiunque passi di lì il giorno delle primarie.

Questa liquidità e indeterminatezza è all’origine degli sbandamenti del partito in questi anni. Il disinteresse della leadership per formare un corpo politico intermedio ben radicato che interpretasse con le sue convinzioni e la sua passione il progetto politico alla fine ha minato l’identità stessa del Pd. L’assenza di un senso di comunità è il tarlo che corrode il partito.

Non è chiaro se il neosegretario Enrico Letta ne sia consapevole fino in fondo in quanto ha compiuto due scelte che configgono con questa idea. Ha nominato come vicesegretaria vicaria una persona, Irene Tinagli, che non ha mostrato particolare attaccamento al Pd avendolo abbandonato per seguire un’altra formazione – Scelta Civica - salvo poi rientrare quando questa è fallita. E, ancora più incomprensibile, ha immesso nella segreteria del partito un non iscritto al Pd, Mauro Berruto, un unicum nel panorama dei partiti. Che ad affiancare il segretario nella sua attività vi possa essere un non iscritto è un segnale di irrilevanza della appartenenza (oltre che di sfiducia verso gli attuali iscritti).

L’apertura e il rinnovamento, necessari e auspicabili, non passano certo per la delegittimazione degli organi statutari. A meno che, come è auspicabile, Letta non si decida finalmente a buttare a mare l’infausto impianto statutario, all’origine di tanti guai , e a costruire una nuova struttura per la sinistra.  Ma qualunque struttura venga creata, l’adesione e la partecipazione devono essere più appealing dello stare fuori, alla finestra.  

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