Ci penso da quando in una storia su Instagram ha detto, rispondendo ai rigurgiti di intolleranza del leghista di turno: «Mio figlio gioca anche con le bambole e questo per me non è un problema». Di fronte alla perdita di controllo di Fedez al telefono coi dirigenti Rai, nelle sue urla, e poi nel tremolio inarrestabile delle sue mani sul palco del Primo maggio che lo ha costretto a sedersi con la voce in affanno, io non ho potuto fare a meno di tenerne conto. E continuo a tenerne conto quando, sempre nei video su Instagram, alle spalle del piccolo Leone compare la sua cucina giocattolo, per la quale io avrei fatto pazzie, e che mai ho potuto avere, a causa dello stigma verso gli sconfinamenti di genere, il terrore verso la possibilità che maschile e femminile (o meglio: stereotipi del maschile e del femminile) si mischiassero.

Peccherò forse di lettura idealistica, ma nell’energia con cui Fedez si è scagliato contro il furore omofobico che appesta la nostra società – e di conseguenza la politica – io ho visto anche un padre che difende suo figlio, un papà che non accetta di associare quelle prese di posizione al suo bambino, al destino che può attenderlo (sebbene qualcuno giustamente noterà che il destino del figlio di Fedez, dovesse essere pure un bambino non conforme, godrà comunque di grandi vantaggi).

In ogni caso le persone LGBT lo sanno bene: non è scontato che la reazione di un padre sia questa. Mi sembra che pochi lo stiano notando ma Fedez rappresenta anche una nuova generazione di genitori, più liberi, genitori in grado di anteporre il bene dei figli al copione che la società ha predisposto per loro. Paul B. Preciado in un articolo del 2014 dal titolo Chi difende il bambino queer?, scrive: «I difensori dell’infanzia e della famiglia tradizionale invocano la figura politica di un bambino che precostituiscono come eterosessuale e genere-normato. (…) Chi difende i diritti del bambino diverso? Chi difende i diritti del bambino a cui piace vestirsi di rosa?». Preciado aggiunge poi un ricordo di suo padre: «Se ho un figlio frocio lo uccido», diceva, al che lo scrittore conclude: «Quel figlio ero io».

Nello sciame di opinioni su Fedez, al netto di tutte le considerazioni sul personal branding e coerenza/incorenza di un influencer assai benestante, io penso che di questo punto, che mischia mondo e esperienza privata, occorra tener conto.

Perché spesso esistono delicate ragioni personali dietro i robanti movimenti che si svolgono sulla scena pubblica ed è giusto mantenere viva, a mo’ di pratica anti-cinica, la possibilità che non tutto sia calcolo, strategia.

Che esistano soglie, passaggi della vita di ognuno che chiedono di prendere posizione, e magari salire su un palco e mettersi a tremare, rischiare di sembrare ridicoli, inimicarsi reti televisive, finire in causa, perché quel che sembrava scontato smette di esserlo, perché un regime di significati chiari e rassicuranti – di cui pure ti puoi essere avvalso in qualche vecchia canzone – semplicemente smette di essere tale, e l’esperienza concreta ti chiede di più.

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