La progressività delle imposte è una grande conquista del Novecento. Terreno di incontro fra il pensiero liberale più progressista (il cosiddetto «nuovo liberalismo», che è l’opposto del neo-liberismo) e quello democratico e socialista. L’obiettivo è rendere «reale» quella libertà che i liberali tradizionali postulavano solo di diritto.

Le guerre mondiali svolgono un ruolo decisivo. Le società liberali europee, che nel 1914 ingaggiarono fra di loro uno scontro mortale, erano anche società, al loro interno, profondamente diseguali. Nessuna, salvo il Regno Unito, aveva una tassazione diretta dei redditi, cosa che peraltro rendeva anche difficile finanziare la guerra con un aumento delle imposte: si faceva debito, si stampava moneta, mentre divampava la polemica sui «pescecani», gli industriali che si arricchivano con le commesse belliche. Terminato il conflitto, molte nazioni europee avviarono una tassazione progressiva dei redditi e delle ricchezze.

La prima patrimoniale 

In Italia, è Francesco Saverio Nitti (esponente della sinistra liberale) a istituire nel 1920 la prima imposta sui patrimoni. Un’imposta straordinaria e fortemente progressiva (dal 4,5 per cento fino al 50 per cento), da pagarsi in rate ventennali. Una seconda imposta patrimoniale, anch’essa straordinaria, sarà poi varata al termine del secondo conflitto mondiale, nel 1947.

Porta il nome del repubblicano Ugo La Malfa: la progressività era ancora maggiore, con aliquote che andavano dal 6 al 62 per cento, e anche la rateizzazione più breve, su 10 anni. Da notare che anche in seguito i principali prelievi patrimoniali ebbero il carattere della straordinarietà. Fra questi quelli del governo Amato, nel 1992, a luglio (sui conti correnti e sugli immobili) e a settembre (sui beni di lusso e sui patrimoni netti di società e ditte), che contribuirono a salvare l’Italia dalla più grave crisi di solvibilità della sua storia e rappresentarono, per i cittadini, un brusco risveglio dopo gli anni del debito pubblico e della corruzione (quando si ballava incoscienti a bordo del Titanic, per dirla con Francesco De Gregori). Furono, sempre, provvedimenti di cui i governi si assunsero la piena responsabilità: non certo derubricabili in un emendamento alla legge finanziaria.

Le imposte progressive sul reddito sono molto più strutturali. Ma qui possiamo parlare di una vera e propria «ascesa e declino» della progressività. Che coincide, certo per un caso, con quella dell’economia italiana. Nel 1923 Alberto De Stefani, il ministro delle Finanze di Mussolini considerato in continuità con i liberali, crea l’«Imposta complementare progressiva sul reddito», che ha invero una progressività molto blanda (le aliquote vanno dall’1 al 10 per cento).

Dopo la seconda guerra mondiale, il principio della progressività diviene il cardine della nostra fiscalità, come tale sancito in Costituzione (art. 53) – quella carta che rappresenta di per sé uno dei più begli esempi di incontro fra liberali, democratici e socialisti. La riforma Vanoni, nel 1951, istituisce la dichiarazione annuale dei redditi e fissa la progressività in aliquote che vanno dal 2 al 50 per cento.

Nel 1958 l’aliquota massima viene portata fino al 65 per cento, impianto confermato nel 1962 (siamo all’epoca del primo centro-sinistra): sedici aliquote, dal 2 fino al 65 per cento. Durante il miracolo economico, la tassazione quindi è molto progressiva (molto più di quella attuale). Quando poi nel 1973 viene creata l’Irpef, questa contiene addirittura 32 aliquote, che vanno dal 10 fino al 72 per cento.

La fine della progressività

È negli anni Ottanta che la tendenza si inverte, e la tassazione, qui come nel resto del mondo Occidentale, si va facendo via via più piatta. Nel 1982 le aliquote vengono drasticamente ridotte, a nove: la soglia minima si alza, quella massima si abbassa, schiacciandosi quindi sul ceto medio. Nel 1989 siamo scesi a sette aliquote. Oggi l’Irpef ha solo cinque scaglioni, che vanno dal 23 al 43 per cento.

C’è stata in questi decenni – in barba a chi crede che in Italia non siano mai state fatte politiche neo-liberali – una forte riduzione della progressività delle imposte: a danno soprattutto del ceto medio (oggi il terzo scalone, oltre i 28mila euro, vede un balzo dell’aliquota dal 27 al 38 per cento), e a vantaggio dei redditi più alti. I quali sono stati ulteriormente favoriti dalla selva di detrazioni, al punto che il sistema è diventato di fatto regressivo.

Di più, sono state introdotte una serie di tassazioni piatte per i redditi da capitale, che vengono così esclusi dalla base imponibile: spicca la cedolare secca al 21 per cento per gli immobili dati in affitto o in B&B (indipendentemente dal loro numero!), una misura non solo iniqua, ma che spinge a congelare i grandi patrimoni nella rendita immobiliare.

Infine, sono state ridotte di molto le imposte sull’eredità, oggi fuori linea rispetto agli altri paesi avanzati e con il risultato di incoraggiare, ancora una volta, la rendita di posizione a scapito del merito.

Sono queste le vere ingiustizie del sistema fiscale italiano. Sono ingiustizie che danneggiano i lavoratori e il ceto medio; favoriscono la formazione di grandi capitali improduttivi e scoraggiano, quindi, la crescita economica. Occorre affrontarle con una riforma della tassazione che recuperi la progressività e alleggerisca il carico sui redditi medi.

La Germania può fare da modello: nella più importante economia d’Europa l’aliquota varia con progressione continua (da 0 al 45 per cento) in base al reddito, senza scaglioni, scoraggiando quindi anche l’evasione. È una logica altrettanto semplice di quella della flat tax, ma opposta.

Una parte della maggioranza, il Pd e LeU, è favorevole a una riforma sul modello tedesco. Ma è una discussione che dovrebbe interessare tutti i cittadini, perché il patto fiscale rappresenta, da sempre, un pilastro fondativo dei sistemi democratici.

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