Cos’è una parola, un nome? Parliamo del ministero dell’Istruzione e del merito, come si chiama adesso sotto il governo Meloni. In tanti hanno notato l’aggiunta della parola “merito”. E dal momento che l’Italia è il paese dello scambio di favori, del parente, dell’amante e del curriculum traballante, la parola messa là in cima fa sognare. Il merito risolverà i nostri problemi di civiltà?

La questione, piaccia o no, è anzitutto teorica, perché si lega al concetto di giustizia, e la giustizia non è una faccenda di istinti e biologie (quella è la vendetta), ma di storia della filosofia. Credere nel merito significa pensare di costruire una società in cui il successo dipenda solo dalle doti innate e dall’impegno. Chi è capace e ce la mette tutta deve accedere al potere, al denaro, a ciò che più desidera. Non devono esistere barriere di classe o di provenienza: se sei bravo, se studi, se lavori sodo, arriverai in cima, anche se parti dal basso.

Non è solo una questione di soldi

Il discorso appare, a prima vista, intriso di giustizia: nessuno vuole una società costruita sui privilegi aristocratici, sugli scambi di favori o – che so io – sull’estrazione a sorte. Chi critica il merito, però, farà notare subito un problema fondamentale: l’idea che sia possibile costruire una società dove il merito esiste nella sua purezza rimane una chimera. Per quanto si cerchi di dare a tutti le stesse opportunità, ognuno risente del contesto socioculturale dal quale proviene. Non è neanche – non solamente – una questione di soldi.

Un’immagine forse trita e ritrita (ma chissà perché la capiamo subito) è questa: sei nato in una casa con gli scaffali pieni di libri o in una casa con gli scaffali pieni di ninnoli? Sappiamo che essere nati nella casa con i libri è un vantaggio, ha una serie di ricadute che ci portiamo dietro per tutta la vita, anche se non leggiamo, anche se siamo il figlio ribelle della famiglia colta. Quel figlio ha comunque visto certe cose, sa che esistono, e se lo desidera potrà rapidamente tornare nel grembo culturale materno. Neutralizzare queste differenze è complicato. Il terreno è fragile.

Il modello americano

Negli Stati Uniti, che sono diversi da noi, il concetto di merito è stato molto amato dai Democratici. Variazioni sul tema sono state adottate decine di volte nei discorsi di Barack Obama: non si tratta, dunque, di una questione per forza “di destra”. Ma il concetto là si è inaridito nel corso degli anni, a fronte dell’inasprirsi delle disuguaglianze, e da tempo è criticato.

Si dice che la meritocrazia abbia generato il populismo, per reazione alle élite che in un simile contesto si comportano come se fossero convinte di meritarsi tutto. Di essere moralmente superiori. Basta ricordare lo scivolone di Hillary Clinton in campagna elettorale, quando ha detto che gli elettori di Donald Trump sono dei miserabili. Poi ci sarebbe da parlare dei talenti: nascere intelligenti è bello, ma non è un’azione lodevole. Non è un’azione e basta, è un fatto. E una responsabilità: se abbiamo dei talenti, abbiamo la responsabilità di metterli a frutto. Il talento è una forma di potere innato.

Ma immaginiamo per un attimo che sia attuabile una società basata sul merito, in cui, cioè, sia possibile dare una definizione perfetta di merito e in cui esista una corrispondenza perfetta fra merito e successo. In una società siffatta chi ottiene il successo è l’artefice del proprio destino. Nessuno può criticarlo per quello che possiede, ha creato la propria ascesa basandosi solo sulle proprie forze, è uno splendido essere umano.

Al contrario, chi non ottiene il successo è l’artefice del proprio fallimento. Non si è impegnato, non è stato bravo e veloce. Il valore morale delle persone è così misurato. La misurabilità dei risultati è affascinante, semplifica, siamo tutti su una scala, dal migliore al peggiore. La solidarietà scompare, perché nel mondo del successo giustamente attribuito non c’è spazio per le arrendevolezze della comunità.

Una società di questo genere è auspicabile? Secondo i critici della meritocrazia no, perché ha un lato demoralizzante, disumano, e alla lunga è forse instabile. Realizza, inoltre, un progetto politico ambiguo: se dichiaro che siamo in una meritocrazia, a quel punto chi non ce la fa è colpevole, e la politica può disinteressarsene. Il merito trasforma un problema collettivo in un problema individuale.

Resta il fatto che nel paese dei favoritismi questo è un discorso difficile da affrontare, perché mancano dei passaggi, e la parola inserita nel nome del ministero sembra più che altro un vezzo. Forse dobbiamo accettare di attraversare una fase storica complicata.

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