Cominciamo dai fondamenti di questa crisi che ha segnato gli ultimi due estenuanti mesi e si è risolta con le dimissioni di Giuseppe Conte. Si tratta di una crisi di fiducia in senso forte, non solo istituzionale.

Per avere chiara la prospettiva di ciò che ci attende dobbiamo capire se questa fiducia potrà essere ristabilita. L’aver fiducia è una condizione relazionale che si snoda in tre momenti: noi siamo vulnerabili agli altri e in particolare al loro tradimento; siamo convinti che gli altri siano capaci di fare ciò che dovrebbero fare affinché ci fidiamo di loro; e siamo convinti che essi vogliano fare questo. Il punto centrale è la vulnerabilità: la quale non viene celata ma ammessa, e richiede che chi si impegna a non approfittare di essa accetti di dare garanzie certe. Qui si situa la connessione tra “fiducia” e “convinzione”. 

La convinzione rende la fiducia realistica perché non si basa su vane parole. E’ come un ponte che unisce due sponde: c’è transizione tra una sponda e l’altra se ci si fida della stabilità del ponte.

La fiducia non è cieca come la fede, vuole segni tangibili. Lo spiegò bene Thomas Hobbes che con la “fiducia armata” risolse il problema della vulnerabilità totale della guerra di tutti contro tutti. 

Una volta stabilito quel patto armato che ci fa tutti sudditi della legge, possiamo stringere patti con una certa sicurezza, perchè ogni fallimento avrà d’ora in poi una via d’uscita, una soluzione predeterminata.

Le parti si scambiano promesse e si lanciano sfide all’interno della certezza dei contratti e della legge.  E questo vale anche per i governi parlamentari.

Se una maggioranza finisce in anticipo, il patto costitutivo regola i passi per la soluzione della crisi: o una nuova maggioranza o nuove elezioni. La ricerca di evitare le elezioni anticipate è istituzionalmente ragionevole. Ma diventa di fatto irragionevole se la fiducia nella solidità del ponte che deve unire le parti è erosa e le prove sono evidenti. Questo è lo scenario nel quale si trova oggi il nostro paese.  

L’Italia è famosa per il piacere che i suoi politici provano nel ballare su piattaforme instabili. Ma in tempo di pandemia questo piacere urta ed è indecente.  Le Monde ha ironizzato sui nostri politici che si permettono «il lusso» di far saltare il governo.

Perché i partiti non amano Conte

L’avvelenamento dei pozzi ha compromesso la possibilità di ricostruire la fiducia. Ha messo in evidenza l’esorbitante influenza di una minoranza, che detterà le condizioni. Ma quale è la ragione della sfiducia? E’ la forte ostilità al presidente del Consiglio uscente. Un’ostilità incastonata nella logica della classe politica che tende ad espellere i corpi estranei: ecco l’accusa a Conte di essere solo un professore, un avvocato, uno che viene dal nulla (come se la democrazia avesse famiglie blasonate).

E’ evidente, quindi, che la crisi sarà risolvibile solo se vincerà il principio di esclusione. Conte dovrà tornare a fare il suo lavoro. Gaetano Mosca ha scritto pagine esemplari sulla tendenza naturale delle classi politiche a chiudersi per proteggersi.

Il fatto è che ancora dopo settant’anni di democrazia, un cittadino che ha una professione e serve come presidente è trattato come un «usurpatore» (termine usato da Barbara Spinelli sul Fatto Quotidiano).

 Al fondo, la ragione di questa crisi nella crisi sta tutta qui. Per questo motivo non potrà essere risolta con la formula a tutt’oggi proposta da Pd e Cinque Stelle: tenendo fermo il ruolo di Conte.

E’ l’estraneità dell’ex-presidente che nuoce alla causa. La competenza (moneta comunque scarsissima nel club dei politici, anche tra coloro che si atteggiano a possederla) non c’entra nulla.

E’ vero invece che mentre la pandemia ha espanso il ruolo dell’amministrazione, l’Italia ha messo in quarantena il suo governo. E intanto il virus corre con le sue mutazioni, assolutamente indifferente a questo triste spettacolo. E ci sono la campagna di vaccinazione e le violazioni dei Big Pharma che richiederebbero un governo non dimissionario.

Si può solo sperare che chi deve dare il massimo nei reparti Covid continui a darlo, e che l’Istitituto Superiore della Sanità tenga testa ai governatori di Regione che detestano ascoltare gli epidemiologi e contestano gli algoritmi nel nome della libertà di sbagliare.

Questi professionisti continueranno a prendersi cura di noi. Soltanto loro. E noi, quando verrà il momento ce ne ricorderemo. Terremo viva la memoria di coloro che hanno esposto noi tutti al ludibrio del mondo e al rischio sanitario.

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