L’arrivo nelle edicole dell’Italia liberata dal fascismo e occupata dalle truppe angloamericane è un fulmine a ciel sereno, anche se di serenità, in quel momento, in giro ce n’è davvero poco e nel centro-nord della penisola si combatte una feroce guerra civile. Le 80.000 copie del primo numero – due sole facciate, per la carenza di carta e le limitazioni imposte dalle autorità militari alleate –, quel 27 dicembre, vanno a ruba. A colpire non è solo la testata, che richiamandosi all’Uomo qualunque, raffigurato come un ometto dall’aria sconvolta schiacciato da un torchio che, manovrato da quattro mani (due a destra e due a sinistra), gli spreme dalle tasche i pochi spiccioli, già indica dove si colloca e i nemici da combattere.

Quel che più attira l’attenzione è il tono dei titoli, degli occhielli e degli articoli. A guerra non ancora finita, in un clima ufficiale che invita alla speranza di una pronta rinascita ed esalta il ritorno alla libertà, il nuovo settimanale spara a zero contro la classe politica, quella del regime caduto e quella che ne sta prendendo il posto. Lo scopo dichiarato dei suoi redattori è di dare voce al popolino «stufo di tutti» e «il cui solo ardente desiderio è che nessuno gli rompa le scatole». Il motto che definisce il programma della pubblicazione è ancora più esplicito: un «abbasso tutti!» che ha per bersaglio l’intera categoria dei politici, parassiti di ieri, di oggi e di sempre.

Bastano due numeri per condensare l’ira di questi ultimi sul giornale. Dopo che L’Unità lo ha definito «oggettivamente fascista», sebbene sia tutt’altro che tenero nei confronti del Ventennio e di Benito Mussolini, entra in azione la censura, che ne ordina la sospensione per due mesi, dalla fine di febbraio al fatidico 25 aprile 1945. Ma ormai L’Uomo qualunque ha colto nel segno: dai 200.000 lettori raggiunti al momento del divieto di uscita salirà a 850.000 nel novembre dello stesso anno. Un successo impensabile e, per i detrattori, sconcertante.

Deus ex machina della creatura è un assoluto outsider della politica, il napoletano Guglielmo Giannini, noto come giornalista satirico e autore di commedie. È lui a dettare la linea e lo stile del periodico e poi a farne lo strumento principe del passaggio dalla polemica cartacea all’azione politica. Ama farsi chiamare «il fondatore» e pubblica un libro dal titolo e sottotitolo emblematici (La Folla, Seimila anni di lotta contro la tirannide), che pubblicizza definendolo «il codice dei principi» del movimento a cui dà vita, e che battezza Fronte (dell’Uomo qualunque) per sottolinearne l’alterità rispetto ai partiti.

La folla contro tutti

Giornale e Fronte battono costantemente sugli stessi tasti. Alla base della loro visione c’è una concezione schematica e manichea della dinamica storica: la Folla della gente ordinaria è il Bene, la detentrice di tutte le virtù etiche, e i Capi, cioè i rappresentanti dell’élite, sono il Male. Tutt’altro che passatista, Giannini elogia il progresso e vede nelle conquiste tecnologiche l’indispensabile strumento di emancipazione dei cittadini, cui esse forniranno la strumentazione adeguata ad amministrarsi da soli, ad accedere all’autogoverno.

La Folla infatti non ha alcun bisogno di essere educata: ha solo bisogno di disporre di un «buon ragioniere», scelto attraverso un sorteggio e destinato a rimanere in carica per un solo anno, affiancato da qualche centinaio di rappresentanti della comunità, estratti anch’essi a sorte, «visto che tutti son buoni a questo mestiere».

Per raggiungere questi obiettivi, la moltitudine ha però bisogno di un interprete, un megafono, e in tale veste Giannini si offre: parla a nome di tutti, divulga le idee salvifiche in un linguaggio che sia alla portata di chiunque, semplice e diretto. E la sua prima funzione è di individuare e stanare i nemici della collettività, denunciandoli ed esponendoli al ludibrio. I primi di costoro sono gli uomini politici di professione – gli u-pi-pi, come li definisce con un’onomatopea irriverente – e i partiti di cui si servono per le loro ambizioni personali: impostori e fannulloni, parassiti del lavoro degli altri, vanno eliminati «come sono state eliminate la sifilide e altre malattie già mortali»: una volta che ciò sarà avvenuto, il sistema della corruzione politico-amministrativa, favorito da questi personaggi che «pur di essere rieletti sono capaci di ogni nefandezza», crollerà.

Il mito del buonsenso

Osannato da platee sempre più fitte nei comizi in cui mette a profitto la sua spregiudicata ed efficace oratoria, Giannini eleva a stella polare della sua azione politica il buonsenso (a cui intesterà il quotidiano del Fuq), tipica virtù popolare, e intensifica progressivamente la virulenza del suo linguaggio: al «vogliamo vivere tranquilli» affianca il più esplicito «chiediamo che nessuno ci rompa più i coglioni» e arriva a descrivere la classe politica come una «verminaia di Capi Sottocapi e Aspiranti Capi intorno al potere, nella quale ciascun verme vuol mangiare l’altro e teme d’essere mangiato dall’altro». Lo stile linguistico colorito, infarcito di battute, paradossi e iperboli, espresso con un eloquio prorompente, con una gestualità appariscente, in modo teatrale, rumoroso, lo rende in pochi mesi uno dei personaggi di spicco della scena politica postfascista.

Quando decide di entrare in prima persona nell’agone politico, si premura di chiarire che il suo è un movimento politico sorto da «un impulso di ribellione contro il professionismo politico, di schifo verso i professionisti politici», che non si darà mai gerarchie e burocrazie interne. Si dice indifferente alle ideologie («fesserie» che mascherano «lerci interessi»), avverso alla destra e alla sinistra, interprete di una comunità di cui fanno parte «i lavoratori di ogni livello sociale, arte e grado, dal direttore di banca all’impiegatuccio, al manovale», nemico dei plutocrati. Alle fumisterie degli intellettuali che lo disprezzano, e che definisce gente che non ha i calli alle mani come capita a chi lavora, ma ce li ha nel cervello e nel pensiero, contrappone soluzioni facili e pronte, perché chi sa amministrare la propria vita familiare saprebbe benissimo condurre un paese.

I caratteri populisti del discorso del Fronte dell’Uomo qualunque emergono con crescente nitidezza nel corso delle campagne elettorali, in cui la serie dei nemici designati si infittisce, con l’ingresso dei «professionisti del sindacalismo», che impongono alla Folla «il martirio della lotta sociale». Il Fronte si definisce il partito dei senza partito, uno strumento a disposizione della «moltitudine di sconosciuti» che vogliono arginare l’arroganza dei mestieranti della politica, contro i quali Giannini evoca a gran voce l’intervento della magistratura, e il suo fondatore dà fondo all’arma dell’ironia per conquistare consensi. I nomignoli e gli epiteti sono uno dei suoi pezzi forti: Fessuccio Parmi per Ferruccio Parri, Togliatti definito Cosacco onorario, Nenni ridotto a Benito tascabile, il Pci a Partito concimista, il Cln a Comitato di diffamazione nazionale sono alcuni dei più noti del suo repertorio.

La strategia funziona: 30 deputati eletti alla Costituente e, soprattutto, grandi successi in molte città del Sud nelle amministrative del 1946. Ma con il successo arrivano i problemi.

Le scissioni

L’improvvisata pattuglia degli eletti rapidamente si divide in tendenze opposte. La Dc inizia una campagna acquisti nelle sue fila, e per reazione Giannini decide di non sostenere il governo De Gasperi e inizia un dialogo pubblico con Togliatti. Irritato dai dissensi sulle linee di azione, espelle i riottosi ed è accusato di derive dittatoriali. Dal né destra né sinistra di pochi mesi prima passa ad una oscillazione fra sinistra e destra. Il gruppo parlamentare non lo segue e lo scontro diventa una questione personale. Gli eletti nei consigli comunali si disperdono in varie direzioni. In breve tempo, si demolisce così il mito della diversità di una formazione immune da quei vizi che la sua propaganda ha sempre imputato al professionismo politico.

Privato della risorsa della radicale alterità rispetto al politicantismo, il qualunquismo si sgretola. I colpi di coda del fondatore – l’attacco ai «ceti ultra-ricchi» a cui sarebbero legati Dc e Pci, gli accordi in extremis con i liberali per liste comuni alle elezioni del 18 aprile 1948 – non sortiscono effetti. È la fine. Qualcuno, pensando a queste vicende, potrebbe riscontrarvi analogie con fenomeni del nostro tempo. Ed alcune sono innegabili. Certo, si sa che la storia non si ripete mai nelle stesse forme. Ma a volte sembra offrire delle premonizioni.

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