In vista della Cop26 di Glasgow - alla quale mancano ormai poche settimane - non c'è questione più importante di come si porrà la Cina. E l'atteggiamento diplomatico della Cina al vertice sul clima sarà influenzato da una serie di fattori contingenti e strategici: gli shock energetici di questi mesi, i relativi blackout, l'inverno in arrivo, l'attuale enorme dipendenza dal carbone. Ma prima un po' di numeri base, quelli che definiscono l'orizzonte.

La Cina è oggi di gran lunga il primo paese al mondo per emissioni di gas serra: 27 per cento del totale, quasi il doppio degli Stati Uniti.

Le proporzioni però si invertono se contiamo le emissioni pro capite: un cittadino americano è responsabile di 15.2 tonnellate di emissioni di CO2 l'anno, un cinese di 7,38.

Sono la metà anche se guardiamo alle emissioni storiche dal 1850, quindi al contributo generale all'attuale crisi climatica. Il primo dato è importante per l'azione nel presente, il secondo e il terzo per le responsabilità.

La Cina è il principale consumatore globale di carbone, ne brucia più di tutto il resto del mondo messo insieme, ed è una quota che Pechino prevede di continuare ad aumentare fino al 2025.

Il picco per le fonti fossili è previsto per il 2030, la neutralità per il 2060. La Cina è però anche il principale produttore di energia idroelettrica, fotovoltaica ed eolica. Ha un quinto della popolazione mondiale e produce un terzo delle merci globali.

Come scrive il New York Times, lo shock energetico degli ultimi mesi è anche un tema di conflitto interno, con il governo centrale che prova a limitare la produzione di carbone e i governi locali che fanno l'opposto, per tenere l'economia in movimento dopo la pandemia.

Molte province stanno razionando l'energia, bloccando così la produzione delle fabbriche, tra queste anche quelle di fornitori di Apple e Tesla a Dalian, Suzhou e Kunshan.

Nella Cina nord-orientale le case sono rimaste senza riscaldamento, le ascensori sono ferme e i semafori non funzionano.

I governatori chiedono soprattutto una cosa: più carbone, che già oggi alimenta due terzi dell'economia cinese.

Una delle ragioni di questa difficoltà energetica è stata la velocità della ripresa post-pandemica, che ha mandato in crisi il mercato dell'energia, nel quale i prezzi sono regolamentati in modo rigido, mentre il costo della materia prima è salito di molto. Per non andare in perdita, molte centrali hanno fermato la produzione.

Secondo Goldman Sachs, il 44 per cento dell'attività industriale cinese è stato colpito da blackout e riduzioni di energia, che potrebbero farle perdere 0.6 per cento di crescita del Pil.

Uno degli effetti immediati più preoccupanti è che 70 miniere di carbone nella Mongolia interna aumenteranno la produzione di 100 milioni di tonnellate: un aumento complessivo del 3 per cento dell'energia dalla fonte più sporca, per rincorrere la domanda e abbassare i prezzi della materia prima.

Un altro effetto è aver sbloccato il carbone australiano, fermo da un anno per una disputa geopolitica sul Covid.

Verso Glasgow

In questo contesto arrivano due elementi. Il primo è l'inverno in arrivo, che si preannuncia freddo e che contribuirà ad aumentare la domanda di energia in uno scenario nel quale è già alta.

Il secondo è proprio il vertice del clima di Glasgow: una delle asticelle del successo per tenere in vita l'obiettivo di contenere l'aumento di temperatura a 1.5° C è uscire dalla Cop26 con una prospettiva certa e prossima dell'ultima dal carbone, e l'unico modo per riuscirci è coinvolgere la principale economia carbonifera al mondo: la Cina.

I blackout e i razionamenti di questi mesi non fanno bene alla transizione energetica cinese, come ha spiegato a Climate Home News Dimitri De Boer, capo dell'ufficio locale dell'organizzazione ambientalista ClientEarth: «Questa crisi rischia di attivare un rifiuto forte contro l'azione per il clima e mettere a rischio tutti gli sforzi per la decarbonizzazione». 

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