«Esiste un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?». La domanda proveniva nientemeno che da Albert Einstein. Nel 1931 aveva accolto con entusiasmo l’invito a prendere parte ad un progetto di scambi epistolari tra intellettuali, promosso dalla Società delle Nazioni: gli venne chiesto di scegliere un quesito di interesse pubblico e un destinatario a cui proporlo. Da tempo ragionava su un mondo in pace sotto l’egida di un’autorità globale, a cui gli Stati avrebbero ceduto parte della propria sovranità e forza coercitiva. Einstein non scelse un politico o un giurista per discutere la sua ipotesi. Inviò la domanda corredata delle sue riflessioni a Sigmund Freud.

A suo modo, tale scelta fu l’ennesima intuizione di una mente abituata a mettersi in gioco. Oggi più che allora siamo consapevoli di quanto la natura della guerra sia intrinsecamente collegata alla nostra psiche, a partire dalle sue sconvolgenti conseguenze: in Israele gli analisti stimano in 90mila i casi di stress post-traumatico originati dal conflitto in corso, mentre l’Unicef certifica come metà dei giovani ucraini tra i 13 e i 15 anni soffra di gravi disturbi del sonno.

Studi simili a Gaza sono oggi irrealizzabili, ma non serve chissà quale competenza statistica per ipotizzare cifre ancor più traumatiche. Ma il dato più angosciante su cui concordano gli esperti è che saranno necessari almeno 30 anni per superare i traumi di tali violenze.

Paura e pace

Di fronte a tanto dolore, anche le iniziative di pace più ragionevoli non possono che apparire sterili e avulse dal contesto. Intese fondate su “due popoli, due stati” o sul referendum per l’autonomia del Donbass sembrano le soluzioni più adeguate nel merito, tanto da essere largamente condivise a livello internazionale. Tuttavia, variabili quali odio e paura sono ad esse del tutto estranee, mentre rimangono prevalenti tra le donne e gli uomini che quella pace saranno chiamati a rispettare.

Anche la proposta di Einstein era idealmente corretta — l’Onu nacque su princìpi simili — ma la replica di Freud evidenziò quanto anch’essa mancasse di tenere conto delle pulsioni umane. «Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra», scrisse con velato sarcasmo, spiegando come l'uomo agisca in base a due impeti antitetici: «quelli che tendono a conservare e a unire e quelli che tendono a distruggere e a uccidere»… «egualmente indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto».

Una relazione emotiva

Per Freud non è possibile risolvere un conflitto confidando sulla sola ragionevolezza: l’istinto vitale è esso stesso fonte di sofferenza, che sia nostra o di coloro a cui la provochiamo nel tentativo di proteggerci. Non si può tuttavia sopprimere l’aggressività umana, perché eliminare pienamente la conflittualità significherebbe cancellare una parte della nostra stessa natura. L’unica possibilità allora è quella di imparare a sublimare questi impulsi oltre la violenza, incanalandoli in sentimenti capaci di far sorgere legami emotivi tra gli uomini.

Riflessioni che evocano accordi di pace recenti e meno tradizionali, come la “giustizia riparativa”, con cui si è affrontato il trauma dell’apartheid in Sudafrica, o il percorso di riconciliazione dei giovani ruandesi. 

Processi fondati sulla costruzione di un'autentica “relazione emotiva” tra le parti, attraverso il doloroso ma cruciale incontro tra vittime e carnefici. Si tratta di soluzioni del tutto in antitesi a quelle che prevedono la separazione degli avversari con muri sempre più alti e invalicabili: uno strumento che potrà anche condurre alla cessazione delle ostilità, ma soltanto finché la pulsione di vendetta per le violenze subite non spingerà a costruire una scala più alta.

Lo stesso Freud, tuttavia, si era reso conto che il suo proposito educativo avrebbe richiesto tempi più lunghi e sforzi più ingenti rispetto alla soluzione “razionale” di Einstein. «È triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina» scriveva amaramente a conclusione della sua risposta. È proprio per questo motivo che, mentre oggi sigliamo tregue fragili e frettolose, è imperativo mettere subito in moto la mola.

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