Avete mai provato a convincere un diciottenne riluttante ad andare a votare? Se l’avete fatto, saprete che non è semplice. Reduce da una discussione di questo tipo, mi ritrovo con più dubbi che certezze sulla validità degli argomenti che abbiamo a disposizione.

Cosa si risponde a un ragazzo che, dotato di un bagaglio minimo di competenza politica, afferma di cogliere poche differenze tra le idee e i programmi dei diversi candidati?

È ormai quasi un luogo comune rilevare le somiglianze sostanziali fra le ricette del centrosinistra e del centrodestra su una vasta gamma di questioni.

E come dare interamente torto, allo stesso ragazzo, se ha la sensazione che il suo voto non conti? Non è forse conclamata la crisi di rappresentatività delle istituzioni?

Eppure del primo voto io conservo il ricordo di un’emozione grande, fatta di senso di responsabilità e insieme paura di sbagliare.

Quel giorno è rimasto tanto vivo nella memoria da persuadermi che deporre la prima scheda nell’urna rinnovi, nella biografia individuale di ogni cittadina o cittadino, la felicità pubblica dei grandi mutamenti storici.

Pensiamo al voto delle donne nel 1946: occasione di gioia e timore, audacia e insicurezza. Scriveva la giornalista Anna Garofalo, a proposito del 2 giugno di settantacinque anni fa: «abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome».

È possibile che il primo voto abbia smesso di rappresentare per i giovani, o una parte di essi, l’eccitante – e ansiogeno – ingresso nella vita politica, per diventare invece il richiamo a un dovere stanco e privo di significato?

In realtà, è difficile credere che sia andato smarrito il senso d’importanza del diritto che si acquisisce alla maggiore età. Il problema è piuttosto la difficoltà di riempire il gesto del voto di un contenuto e uno scopo.

E ciò dipende, in primo luogo, dalla mancanza di un’offerta politica capace di intercettare i bisogni e gli interessi di chi oggi si affaccia alla vita adulta. In particolare, la disaffezione per il gioco elettorale, in questa fascia d’età, penalizza la parte sinistra dello spettro partitico.

Nichilismo?

Umberto Galimberti ha parlato di «nichilismo» dei giovani, in relazione almeno a due dimensioni di cui parlava Nietzsche: la mancanza di un «fine», di fronte a un futuro divenuto un paesaggio imprevedibile e ostile; e la mancanza di una risposta alla domanda sul «perché» – cosa ci sto a fare in un mondo che non mi considera, che mi rimanda continuamente alla mia insignificanza sociale?

Questo nichilismo però, secondo il filosofo, può divenire «attivo», in tutte quelle ragazze e quei ragazzi che non si rassegnano, che sanno che – bello o brutto che sia – il futuro è nelle loro mani.

Tra questi possiamo annoverare, per esempio, i giovani che hanno risposto in massa alla raccolta di firme per il referendum sulla cannabis o, con ancora più evidenza, quelli che animano Fridays for Future per la giustizia climatica.

Da questa piattaforma emerge forte, al contempo, la sfiducia nell’azione politica di partiti e governi: si veda il riferimento di Greta Thunberg al «bla bla bla» dei decision makers, o lo scetticismo («finché non vedo i fatti non credo») dell’attivista Martina Comparelli.

Gli «attivi» mostrano che esiste una domanda per una politica più coraggiosa, che abbracci con convinzione i valori postmaterialisti verso cui volgono le loro battaglie.

I partiti che sapranno ascoltarne la voce potrebbero essere in grado di riportarli alle urne. 

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