Bisogna conoscere il male per trovare il rimedio. Questa regola fondamentale non vale solo per la battaglia della medicina contro il virus, ma si applica anche alle ingiustizie che la pandemia ha fatto risaltare e ulteriormente aggravato.

È il caso delle diseguaglianze di genere che, come è ormai certificato da un gran numero di studi, sono aumentate nei mesi del Covid-19 e rischiano di innescare una shecession, una recessione al femminile.

La crisi colpisce le donne molto più degli uomini. Questo, non solo a causa della strutturale sottoccupazione e precarietà di impiego delle donne, e della forte caratterizzazione femminile di attività penalizzate dal lockdown come il commercio o il turismo, ma anche per le caratteristiche proprie della crisi pandemica.

Che non ha colpito, come la crisi di dieci anni fa, su piano immateriale della finanza, ma su quello materiale della salute dei corpi.

Per questo è stata ed è una «crisi della cura», che investito la sfera della conservazione e riproduzione della vita, ovvero quella che è segnata, storicamente, dalle forme più marcate di ingiustizia nella divisione sessuale del lavoro.

È allora doveroso che la parità di genere figuri come una «linea strategica» del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza varato dal governo per l’impiego dei miliardi del Next Generation EU. Però, leggendo la bozza del documento, la prima impressione è piuttosto deludente.

Troviamo, da una parte, l’impegno a favorire l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro retribuito attraverso non meglio specificati interventi per l’occupazione e l’imprenditorialità femminile; dall’altra, servizi per alleggerire i «carichi di cura», in particolare i nidi d’infanzia.

Come hanno calcolato le economiste di Ingenere, però, per arrivare a coprire il fabbisogno di asili nido servirebbe la gran parte dei 4,2 miliardi del capitolo «parità di genere». 

Agire sui padri

Manca, nella visione del Piano, uno sforzo per sovvertire l’attuale ordine di genere, per ripensare la cura come un compito che deve riguardare tutte e tutti.

Ne è una prova il fatto che i congedi di paternità restano fermi ai miseri sette giorni previsti dalla Legge di bilancio, al di sotto persino della soglia dei dieci giorni stabilita dalla direttiva europea sul work life balance, e comunque lontanissimo dalle otto settimane disposte recentemente da un paese come la Spagna.

La cura resta dunque una faccenda femminile, da gestire nell’equilibrio migliore possibile con le esigenze del lavoro. Quando il lavoro c’è.  

Le ricette per la parità di genere, insomma, oltre ad essere (per il momento) generiche e non molto diverse da quelle di cui parliamo da vent’anni, sono prive dell’ambizione necessaria a perseguire un ideale avanzato di giustizia di genere.

Un ideale di questo tipo, se vuole essere complesso e un po’ visionario, ha bisogno di articolazione. Per esempio, deve chiedersi: in che cosa donne e uomini dovrebbero essere pari? E ci sono almeno tre dimensioni da considerare.

La prima è quella del reddito e della ricchezza, che richiede di superare gli attuali divari retributivi e pensionistici. La seconda è l’eguaglianza nel tempo libero, che richiede di superare la distribuzione iniqua dei carichi di cura tra i generi. La terza è l’eguaglianza nel rispetto, un obiettivo che si può perseguire solo attraverso la sovversione degli stereotipi culturali e la trasformazione dei ruoli di genere.

A questo dovrebbe servire quell’«educazione di genere» che è da anni sparita dai programmi di governo, e che il Piano non menziona, non considerandola evidentemente parte necessaria di un nuovo modello di sviluppo.

La cura non è solo delle donne

In un tempo che richiede il ripensamento di tutti i paradigmi e il coraggio di cambiare in profondità le strutture economiche e sociali, bisogna ribaltare il punto di vista.

Smettere di guardare alle donne come soggetti manchevoli che devono adeguarsi alla norma maschile che struttura l’intero sistema economico e sociale.

Smettere di guardare alla cura come a un dominio femminile e domestico, estraneo alla sfera politica ed economica.

Cominciare invece a guardare alla cura come un compito universale, come una preoccupazione centrale della democrazia post-pandemica, come un asse portante per il ripensamento dell’organizzazione del lavoro e dei sistemi di welfare.

La chiave, per citare la filosofa Nancy Fraser, è «rendere gli attuali modelli di vita delle donne la norma per tutti», cioè assumere come standard quello della persona con compiti di cura, e non – come è da secoli – quello del lavoratore con la moglie a casa.

Se non lo facciamo ora che il Covid-19 ci ha sbattuto in faccia l’insufficienza di tutti i nostri sistemi di cura, quando ci accorgeremo dell’urgenza del cambiamento?

Se la crisi che viviamo è una crisi della cura, è dalla cura che dobbiamo ripartire per produrre uno spostamento di paradigma che sia all’altezza dello sconvolgimento operato dalla pandemia nelle nostre vite.

Solo così possiamo cominciare a disegnare una vera strategia in cui «parità di genere» non resti un significante vuoto. Altrimenti dovremo concludere, come il personaggio di Pirandello in Uno, nessuno e centomila: «abbiamo creduto d'intenderci, non ci siamo intesi affatto».

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