La crisi sanitaria si è abbattuta su un mercato del lavoro già gravato di molteplici problemi tra bassa e cattiva occupazione e una dinamica della produttività stagnante. Le cose sono molto peggiorate con la pandemia. Una situazione esplosiva che senza gli interventi di salvaguardia avrebbe assunto dimensioni drammatiche.

Resta tuttavia il problema dei licenziamenti “congelati” e dei tanti lavori precari e sottopagati che nel dopo covid sono destinati a crescere, non certo a restringersi. Oggi più mai è urgente una riforma organica degli ammortizzatori sociali. Occorre tuttavia sgombrare il campo da equivoci, usati spesso per alimentare polemiche pretestuose. Si è detto che non c’è paese in Europa che abbia mantenuto un blocco dei licenziamenti così lungo.

Va però ricordato che non c’è paese europeo che abbia sussidiato così tanto le imprese con la cassa integrazione in deroga come l’Italia. E non solo nell’ultimo anno.

Chi paga il conto

E’ sotto questo profilo che emerge una vera peculiarità italiana, e cioè il fatto che le imprese non pagano contributi quando fanno uso della cassa integrazione in deroga. I dati Inps sui contributi versati tra il 2008 e il 2019 tra cassa integrazione ordinaria, straordinaria (la fattispecie che si attiva in caso di prossima cessazione dell’attività produttiva o drastica riduzione dell’occupazione a carattere permanente) e cassa in deroga (pagata dallo Stato), mostrano come a fronte di avanzi significativi nella cassa ordinaria (17, 5 miliardi tra il 2008 e il 2019) le altre due siano state strutturalmente in deficit (12 miliardi per la cassa straordinaria e 8,6 per quella straordinaria) Ciò significa che c’è da anni un travaso di risorse da imprese in equilibrio che usano gli ammortizzatori sociali a contribuzione ordinaria come strumento di sospensione temporanea del lavoro a imprese strutturalmente in crisi con un contributo a carico dello Stato più che sostanzioso, senza quasi paragoni in Europa.

Superata la fase emergenziale, è quanto mai necessario rimettere mano a un sistema che è cresciuto in estensione ma condizionato da una eccessiva frammentazione e sacche di iniquità nell’accesso, non solo per la parte riguardante le politiche passive, ma anche sulle politiche attive del lavoro, il vero grande punto interrogativo del cantiere delle riforme in corso. Non c’è giorno che passi senza che da più parti si ribadisca la necessità di rilanciarle. Anche qui tuttavia occorre sgomberare il campo da equivoci.

Per creare lavoro, servono prima di tutto investimenti e politiche industriali in grado di intervenire sul sistema produttivo. Senza questi, le politiche attive, anche quelle meglio congegnate potranno poco, tenuto conto dell’emorragia di posti di lavoro che dovremo fronteggiare.

Dai sussidi al lavoro

E’ difficile immaginare un ritorno alla normalità in tempi brevi. Soprattutto è difficile ipotizzare che da solo il nuovo programma Gol (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori) introdotto dal Pnrr sul modello di garanzia giovani per i Neet possa determinare un ampliamento degli sbocchi lavorativi.

Piuttosto è la creazione diretta di lavoro che dovrebbe tornare al centro di una strategia di rilancio delle politiche del lavoro.

Nel fare questo, non si tratta di sostituire ai sussidi la garanzia del lavoro di ultima istanza da parte dello Stato, come peraltro in passato si è fatto in situazioni analoghe (si pensi al New Deal di Roosevelt). Ma nemmeno continuare con una idea di politiche attive non più al passo con i tempi fatta di soli interventi sui disallineamenti tra domanda e offerta di lavoro e verifica dei requisiti per l’accesso ai sussidi.

Occorre un salto culturale e organizzativo fatto di più Stato e più società civile e terzo settore, da vedere non come bacino di lavoro gratuito sussidiato, ma come spazio di produzione e co-produzione di nuovi servizi e nuovo lavoro, soprattutto più negli ambiti trasversali promossi dal Pnrr. In una fase come quella che stiamo attraversando, la riorganizzazione delle politiche attive può giovarsi molto di alleanze di questo tipo.

Occorre tuttavia un perno pubblico e un sistema di governance che sia in grado di trasferire e incubare progetti, intervenire sui fabbisogni professionali e agire con una azione molto forte e capillare di animazione territoriale. A questo scopo non servono solo risorse. Serve prima di tutto una progettualità coerente con una governance in cui sia ben chiaro chi fa che cosa e perché, non più le vecchie e non insostenibili sovrapposizioni di competenze tra Stato, regioni e la stessa Agenzia per il Lavoro che non ci possiamo più permettere.  

© Riproduzione riservata