Nonostante (o proprio per) la pandemia, il 2020 è stato un anno senza precedenti per gli omicidi mirati contro gli attivisti per l'ambiente in tutto il mondo. Sono usciti questa settimana i numeri del rapporto annuale prodotto dal 2012 dalla Ong britannica Global Witness e sono sconfortanti: sono state 227 le persone assassinate perché si battevano per cause legate alla protezione dell'ambiente, contro lo sfruttamento fuorilegge di risorse naturali, l'industria del legname, l'estrazione mineraria, la costruzione di nuove infrastrutture e di dighe per l’idroelettrico.

Nel 2019 erano state 221 e, da quando è stato siglato l'Accordo di Parigi nel 2015, ogni settimana in media quattro attivisti sono stati uccisi, numeri che secondo l'organizzazione britannica sono «sicuramente sottostimati a causa delle crescenti restrizioni contro il lavoro dei giornalisti». 

I dimenticati

La maggior parte delle vittime del 2020 sono state agricoltori su piccola scala o indigeni, travolti da battaglie più pericolose e più grandi di loro, e nella maggior parte dei casi erano schierati a tutela di un ecosistema forestale. Secondo il rapporto, le aree del mondo dove è più pericoloso sostenere attivamente una causa ambientale sono l'America Latina e il bacino amazzonico, la metà degli omicidi è avvenuta lì.

Parlando di settori, l'opaca industria del legname nei paesi tropicali è quella che ha il conteggio di vittime più alto nel 2020 (non a caso anno record della deforestazione), fatte tra Brasile, Nicaragua, Filippine e Perù.

Il singolo paese con più morti legati alle cause ambientali invece è la Colombia, con 65 omicidi nel corso dello scorso anno, mentre il Nicaragua è quello con più morti pro capite. Global Wiitness evidenzia due storie tra le tante.

Tra le persone assassinate c'è Fikile Ntshangase, sudafricana, 65 anni, che portava avanti una battaglia legale nella provincia del KwaZulu-Natal contro l'estensione di una miniera a cielo aperto nella sua comunità. È stata uccisa nel suo salotto. Oppure Óscar Eyraud Adams, attivista messicano, che si batteva per migliorare l'accesso all'acqua della comunità indigena Kumiai in Baja California. 

La protezione

Proprio in questi mesi la Commissione europea sta lavorando a una normativa per impedire l'importazione nell'Unione europea di prodotti (come il legname, la carne, la soia, la pelle o la gomma) inseriti all'interno di filiere alla cui base c'è la distruzione degli ecosistemi e la violazione dei diritti umani, esattamente le due questioni di cui si occupa il rapporto Global Witness.

Il regolamento europeo, per altro, arriva dopo una grande consultazione pubblica di cittadini svolta nel 2020 (la più grande mai organizzata in Europa sui temi ambientali), è stato notevolmente rallentato dal lavoro delle varie lobby di settore e - da una bozza uscita in queste settimane - sembra anche applicare una definizione piuttosto ristretta di foresta, che terrebbe fuori zone come il Cerrado, la savana più ricca di biodiversità della Terra e il Pantanal, la zona umida più grande del mondo.

Qualunque indebolimento della normativa sarebbe anche un colpo alle lotte di molti degli attivisti raccontati da Global Witness. Il rapporto esce anche a poca distanza dalle due Cop globali di Kunming, Cina (biodiversità) e Glasgow, Regno Unito (clima).

Per ostacoli logistici, legali e diplomatici, a entrambi gli eventi faranno fatica a partecipare attivisti indigeni e di comunità come quelli assassinati nel corso dell'ultimo anno, da tempo la comunità ambientalista internazionale chiede il riconoscimento di queste voci nei negoziati su ambiente ed ecologia. 

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