Il panorama del lavoro tramite piattaforma è in continua evoluzione. L’accordo tra i sindacati e la piattaforma Just Eat, che ha l’obiettivo di includere i rider nel contratto collettivo della logistica, seppure con alcune differenze, è solo l’ultimo tassello. Tassello di un dibattito che si è evoluto attraverso tentativi di intervento del legislatore che non hanno portato ai risultati sperati e soprattutto attraverso un variegato, e spesso contraddittorio, insieme di sentenze di diversi tribunali italiani e inchieste giudiziarie.

Prima della pandemia i rider erano una realtà comune in poche grandi città ma con il lockdown e la chiusura dei ristoranti il mercato si è espanso, raggiungendo decine di comuni anche minori e rendendo familiari così i ciclofattorini. In parallelo, sono cresciute le entrate delle piattaforme. 

Se poi si aggiungono i continui interventi della magistratura, spesso generati da denunce coordinate dal sindacato, è chiaro che ci troviamo in una fase storica in cui è difficile pensare che il lavoro in piattaforma resti all’interno di una area grigia non regolata. Area grigia che è stata anche alimentata dall’abitudine di diverse piattaforme di utilizzare tipologia di rapporto di lavoro, come il lavoro autonomo occasionale, che sono distanti dalla realtà dell’organizzazione del lavoro dei rider.

Alla luce di questo scenario però è difficile immaginare che la soluzione sia quella di un riassorbimento di tutti i rider all’interno del lavoro subordinato.  È difficile perché i costi per le piattaforme sarebbero alti con riferimento non tanto al salario, sul quale si è visto (anche nell’esempio del contratto Ugl) che vi è disponibilità a riconsiderare le tradizionali modalità e quantità, quanto piuttosto rispetto ai costi accessori che un lavoro subordinato porta con sé.

Oltretutto, permangono dubbi sul fatto che la maggioranza dei rider oggi aspiri ad un contratto di lavoro subordinato con un orario fisso rinunciando ad una flessibilità che per alcuni, in particolare chi ha altri lavori o altre attività di studio, è ancora importante.

Quale soluzione?

I tribunali però non possono inventare nuove leggi o nuovi accordi collettivi per cui se si continuerà a lasciare a loro l’ultima parola su questo tema non avremo altro che soluzioni basate sulle norme già presenti, che come tali faticano a rappresentare una modalità di lavoro che ha indubbi elementi di novità, a partire dall’infrastruttura tecnologica su chi si fonda. 

La soluzione è quindi quella già suggerita dal legislatore, ossia un accordo tra piattaforme e sindacati che abbia il coraggio di immaginare modalità innovative per regolare il settore. L’autonomia delle parti è stata chiamata in causa da diversi mesi ma non sono state poche le difficoltà che si è trovata di fronte, a partire da una distanza tra le parti proprio sull’inquadramento dei rider come lavoratori subordinati o meno. Ma questa resta comunque la scelta migliore e soprattutto le piattaforme dovrebbero essere consapevoli oggi che i cambiamenti nell’opinione pubblica, il ruolo della politica (che sembra guardare a una riforma che segua il rigido modello spagnolo) e l’orientamento dei tribunali riducono il loro margine di manovra. Non è da escludere che in altri tempi alcune di loro avrebbero optato per abbandonare il mercato italiano, ma i risultati economici dell’ultimo anno cambiano le carte in tavola. 

Un accordo innovativo, che provasse a interpretare le esigenze del settore (lavoratori compresi) senza ingessarlo nelle cornici del lavoro del secolo scorso sarebbe poi un segnale di vitalità delle relazioni industriali anche agli occhi dell’opinione pubblica che spesso ignora la miriade di accordi e contratti che si sottoscrivono quotidianamente a livello aziendale e che spesso contribuiscono a tenere in piedi il tessuto produttivo italiano e a innovarlo. 

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