Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è stato approvato dal governo, e deve passare ancora attraverso due “esami”, il parlamento e l’Europa, ma vale comunque la pena di analizzarne una dimensione importante, che è quella delle valutazioni quantitative. La nuova versione del Piano è più onesta della precedente: a livello aggregato, ha addirittura cancellato il capitolo relativo. C’è all’inizio un breve  richiamo al modello macroeconomico europeo QuestIII, poi più nulla.

Non si specifica nemmeno se i valori aggregati che si presentano sono frutto di un nuovo “giro” del modello, che tenga in conto l’aumento della quota di spesa in deficit richiesta e ottenuta da Matteo Renzi. Ma stando alle dichiarazioni del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, questo aumento ha “migliorato” il Piano. Assumiamo dunque che il modello abbia girato di nuovo, e i risultati siano migliorati.

Ma un modello per cui si assume che tutti i progetti (non analizzati) siano i migliori possibili in termini di impatto sul Pil, ovviamente dà risultati che migliorano linearmente con la quantità di spesa!

Dunque, è ovvio che l’assenza di ogni valutazione microeconomica, almeno per i progetti maggiori, svuota di ogni valore anche le valutazioni macroeconomiche quando assumano a priori “ottimi” tutti i progetti. Quella valutazione diventa un puro esercizio per legittimare tutto e il contrario di tutto. Pura agiografia.

Alternative possibili

Proviamo ora a suggerire qualche possibile e semplice ricetta, ben consci che “valutare” per i nostri politici significa mettere in dubbio il loro arbitrio, e non, come dovrebbe essere, supportare criticamente il processo decisionale che tutti ci riguarda.

Per le valutazioni macroeconomiche il minimo sarebbe configurare scenari internazionali alternativi, dai quali anche il tema del livello di debito futuro avrebbe potuto trarre indicazioni, oggi assenti. Il passo successivo sarebbe simulare, per diversi mix di allocazione settoriale, impatti finanziari, distributivi, occupazionali, ambientali e di crescita, ma rinunciando ovviamente all’assurda assunzione a priori che tutti i progetti siano “ottimi”.

Anche limitando il punto al solo settore investimenti, la prima cosa da segnalare sono le lodi bipartisan  al “modello Genova”, traducibile con “di concorrenza non si parli, che è fastidiosa” (il fatto che la prima applicazione del modello abbia visto i costi di quel ponte aumentare del 50 per cento non è considerato rilevante).

La valutazione dei principali progetti all’interno dei settori poteva basarsi in parte sugli effetti moltiplicativi della spesa (molto diversi tra settori e tra progetti), in parte su altri indicatori di base relativi all’impatto “a valle” della spesa. E’ privo di senso limitarsi ai moltiplicatori nella fase realizzativa: ne uscirebbero soluzioni assurde, di opere inutili valutate nello stesso modo di opere che rispondano a una forte domanda.

Non solo: interventi con forti impatti occupazionali nel breve termine (molto labour intensive) prevarrebbero su altri a maggior contenuto tecnologico, con effetti positivi di medio-lungo periodo, ma capital intensive. Cioè ci si affaccerebbe pericolosamente ad uno scenario paleo-keynesiano di “buche da riempire”, che di fatto significa puntare solo sull’aumento dei consumi delle famiglie. Scelta non illegittima di per sè, ma in ogni caso da rendere almeno esplicita.

Le tecniche internazionalmente diffuse di valutazione, per gli effetti “a valle”, si rifanno ovviamente all’analisi costi-benefici, che altrettanto ovviamente postula analisi di domanda e di impatti ambientali e finanziari (per esempio, vi sono infrastrutture con importanti ritorni finanziari, altre interamente a carico dell’erario: ha senso trattarle nello stesso modo?).

Poi esistono tecniche semplificate, all’interno dell’analisi costi-benefici, su cui qui non possiamo dilungarci, ma che per esempio consentono, senza i rischi di eccessive imprecisioni, di evitare i calcoli relativi alla dimensione intertemporale dei progetti.

Ma in fondo non è rilevante quale metodologia usare, purché sia internazionalmente accettata e consenta comparazioni basate su un minimo di numeri, e non su affermazioni generiche, o addirittura ideologiche, che nel piano abbondano al di là del pensabile.

L'importanza di valutare

Di nuovo, appare grave non avere nemmeno tentato di valutare in alcun modo neppure i maggiori progetti, per selezionare tra alternative significative.

Non rimaneva da sperare, data l’assoluta convergenza nel non voler valutare nulla, che l’Europa richiedesse un minimo di quantificazioni microeconomiche, e questo per consentire a noi scelte che davvero ci pongano su un sentiero di crescita.

I primi segnali usciti dalla Commissione europea purtroppo non sembrano entusiasmanti: si considerano da quantificare principalmente gli impatti sul versante dell’offerta (la fase realizzativa), risolvibili con analisi di moltiplicatore, che non quelli sulla domanda (gli effetti “a valle”). Cioè in estrema sintesi, si rischia di non distinguere le opere utili da quelle inutili, lasciando troppo spazio a legittimazioni qualitative e generiche.

Certo, valutare significa anche poi essere chiamati a rispondere dei risultati delle scelte, e questo può risultare molto sgradevole, per cui esiste solo in inglese il termine “accountability”. Da noi non si usa.

L’alternativa ovviamente è contare per un lunghissimo periodo sulla benevolenza dei nostri partner europei, cioè in un pericoloso nirvana da cui rischiamo bruschi risvegli.

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