Tornato al lavoro il governo scopre l’elefante nella stanza: va rinnovato il patto di stabilità Ue, sospeso fino a dicembre per pandemia. Se non arriva prima l’accordo in Consiglio europeo, si torna alle regole di Maastricht, accusate d’aver fermato la crescita dei periferici, Italia inclusa, nella crisi dei debiti sovrani.

La Commissione propone un patto basato su piani concordati fra Bruxelles e gli stati per la flessione dei debiti; s’oppone Berlino, a capo dei “frugali”. Ne ha parlato qui ieri Francesco Saraceno, che ritiene meglio far passare la scadenza, contando su assetti politici più aperti dopo le elezioni europee. Se posso, a me pare invece un azzardo che ci lascerebbe, nell’interregno fra vecchia e nuova Commissione, alla mercé dei creditori.

La maggioranza sa d’aver fatto promesse irrealistiche e per le sue teste d’uovo il rimedio è un do ut des: per ottenere la flessibilità necessaria ad attuare le promesse, il governo accetta che chi ha meno debiti, Germania in testa, per aiutare le proprie imprese spenda più di quanto permesso dalle regole Ue.

Per il suo tornaconto elettorale il governo penalizza le nostre imprese, che dovranno affrontare una concorrenza irrobustita da pingui aiuti di stato a noi preclusi. È questo per la destra l’interesse «della nazione». Perciò Meloni cerca aiuto da Francia e Spagna; «purché se magna» ovviamente. Quanto ascolto avrà a Madrid la premier se in agosto chiede aiuto al premier che Vox, da lei platealmente sostenuta a luglio, voleva mandare a casa?

Con Macron i rapporti sono altrettanto gelidi; è poi meglio non sperare che la Germania sia ammorbidita dalle sue attuali difficoltà. Meloni vuole più spesa e debito per allargare l’iniqua flat tax, pagare la riduzione delle aliquote fiscali e tante mancette, minimi brani di carne da lanciare agli elettori; il contrario della riduzione delle “spese fiscali” da ogni governo pensata, mai attuata. Servono 30 miliardi, ma gli spazi disponibili non arrivano a un terzo. Per Meloni il nuovo patto dovrebbe anche consentire maggior deficit a fronte di investimenti, ma un’abborracciata golden rule non otterrà i risultati negati a più strutturati tentativi passati.

Se volesse davvero più investimenti per la transizione climatica, Meloni dovrebbe spendersi perché essi siano centralizzati a livello Ue; sono i beni pubblici europei sempre invocati da Marco Buti e Marcello Messori.

Non può farlo se nega la ratifica del Mes e tratta il Pnrr come una seccatura. Difficile che la Polonia e gli altri alleati sovranisti le diano man forte. Va denunciata l’indecenza dello scambio cui mira il governo, oltretutto destinato a fallire; più facile che Parigi e Madrid condividano il nostro chiaro interesse a un forte sostegno sulla sensata proposta della Commissione.

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