“Non è mai questione di puri nomi in materia canonica”. Questo antico principio ermeneutico accompagna l’attesa per il documentario di Evgeny Afineevskym su papa Francesco. Lì ci sarebbe sarebbe una sostanziale accettazione da parte del pontefice delle unioni civili anche fra persone dello stesso sesso che ha colto di sorpresa molti.

Davanti alle relazioni omosessuali le chiese cristiane e quella cattolica hanno fertilizzato e si sono nutrite per secoli una cultura del disprezzo, dell’intolleranza, della discriminazione, condivisa dalla cultura politica e giuridica coeva: un odio per quell’amore e per i gesti che lo manifestavano che faceva parte della morale comune.

Ma nel suo strutturarsi hanno avuto un peso enorme due fatti. Da un lato il passaggio dal matrimonio di puro consenso a quello sancito dall’autorità, segnato dal concilio di Trento: lì si forma una dottrina della famiglia fatta di subalternità femminile e di fini del matrimonio, primo fra tutti la procreazione. Dall’altro l’affermarsi dell’idea che il magistero è interprete della “natura” e dunque sa cosa è secondo natura (per l’appunto la subalternità femminile e la funzione della donna come fattrice) e cosa è contro natura (per antonomasia l’amore omosessuale maschile, e per estensione quello femminile).

Il sentire civile, segnato da entrambi quei passaggi, ha guadagnato una concezione dei diritti in modo lento, non univoco, né irreversibile (come ricorda ogni giorno la cronaca a ricordarlo). Per le chiese la riconquista del tema ad una dimensione evangelica è stata ancora più lenta e variegata: ci sono state fughe in avanti (il primo gay che adotta un bambino è un prete anglicano nel 1969), regressioni tattiche (sia con l’ortodossia russa, con l’evangelicalismo suprematista, con l’islam la condanna dell’omosessualità è stata oggetto di convergenze ammiccanti), e di compromessi. Uno dei quali è il tentativo di marcare un salto fra il matrimonio e ciò che non si deve chiamare matrimonio, ma al massimo “unione” (termine in vero assai liturgico).

Su questo compromesso le tensioni interne alla chiesa e fra chiesa a politica sono state a volte strumentali, come quelle agitate da Ruini contro Prodi, a volte meno insincere, a volte ingenuamente destrorse.

Poi arrivò quel primo passo di Francesco: «chi sono io per giudicare un gay?»; frase detta nel giugno del 2013. Molti, ignari del Nuovo testamento, credevano fosse una frase ad effetto: era invece una glossa a un comando evangelico, che finalmente rientrava nel discorso pubblico. Poi c’è stato il doppio sinodo sulla famiglia in cui il tema è tornato e per motli si è posto ancora in termini di “natura”: come se la legittimazione dell’amore gay fosse il carattere creato dell’orientamento sessuale e non la sua natura di amore.

E adesso questa frase che andrà ascoltata bene: non perché ogni sospiro del papa sia magistero, ma perché ci dirà qualcosa: dire che è l’amore che fa una famiglia non è una concessione alla modernità – come strillano da ieri i siti reazionari: a quelli il papa potrebbe mandare in dono gli studi di Fernanda Alfieri che ha trovato nel Quattrocento italiano matrimoni gay, resi tali dal puro consenso e finiti davanti al giudice ecclesiastico solo quando è stata ora di decidere delle eredità di un coniuge defunto. Quello che il papa dice è una dichiarazione sull’amore e sui suoi diritti: e qui tutti navigano in campo aperto, perché l’amore non è una ideologia facilona della natura e nemmeno una facilona ideologia del desiderio.

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