Ci sono tre Italie nella pandemia, tre paesi nel paese che guardano alla crisi sanitaria e sociale da prospettive divergenti. Non corrispondono alle zone distinte per colore in base al rischio epidemiologico – le zone gialle, arancioni o rosse – né riproducono le tradizionali divisioni di classe.

C’è l’Italia che ogni mattina, ovunque si trovi e a prescindere dall’andamento della curva dei contagi, si alza per andare al lavoro.

Sono i lavoratori e le lavoratrici della sanità, della scuola dell’infanzia e primaria, della logistica, delle filiere “essenziali”. Sono quelli che, con le loro attività spesso svalutate e malpagate, tengono letteralmente in vita le persone o si occupano della manutenzione e del funzionamento del nostro mondo comune.

Non possono confinarsi in casa in attesa che passi la piena del virus, e spesso, a causa del rischio di contagio, sono costretti alla separazione fisica da figli, coniugi, amici.

C’è l’Italia che, invece, la mattina si alza solo per muoversi dalla camera da letto alla cucina o alla scrivania. Che ha trasferito tra le pareti domestiche il mondo di fuori e si sforza di restare al passo con le richieste del lavoro a distanza, della didattica online dei figli, oltre che con del consueto ménage familiare.

Chi lavora a distanza ha la fortuna di poter conservare il lavoro e proteggere la propria salute, ma la concentrazione e sovrapposizione di diverse necessità negli stessi spazi ha un costo.

A pagarlo sono in misura maggiore le donne, gravate da doppi o tripli carichi di lavoro domestico ed extradomestico. Comunque, per chiunque non viva in ampi spazi, il peso è notevole.

Infine c’è l’Italia colpita al cuore dalle misure di prevenzione del contagio: quella degli esercizi commerciali chiusi, dei bar e ristoranti che calano le serrande al tramonto, delle libere professioni interrotte, delle filiere “non essenziali”, dei lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, dello sport di base, dell’impiego povero, precario, in nero. In questo pezzo di paese le giornate sono spesso lunghe e vuote, e l’angoscia cresce.

Qualcuno è in cassa integrazione, e si chiede cosa verrà dopo. Qualcuno può contare solo su bonus e ristori una tantum. A qualcuno non resta che il reddito di emergenza. Chi aveva già poco, e ora non ha nulla, ingrossa le file dei nuovi poveri.

Il carico intollerabile

Queste Italie non hanno molto in comune al proprio interno. A unirle è solo il posizionamento nella crisi, che le distingue dalle altre. Ognuna percepisce il proprio carico come intollerabile, e tra di esse crescono le contrapposizioni. I lavoratori autonomi o non garantiti si scagliano contro i dipendenti che continuano a ricevere lo stipendio, mentre i lavoratori dipendenti rispolverano il luogo comune del commerciante-evasore-fiscale.

Il personale sanitario implora i cittadini di stare a casa, mentre gli esercenti delle attività ancora aperte pregano perché le persone continuino a uscire.

I senza-lavoro darebbero qualcosa per essere dichiarati “essenziali”, mentre i lavoratori “essenziali” guardano allo smartworking come a un miraggio e un privilegio.

La società italiana divisa in partes tres dalla nuova ondata non somiglia a quella che in primavera produceva slogan da pubblicità, cantava sui balconi e lanciava campagne di solidarietà.

La chiamata alla solidarietà è fievole, le iniziative di raccolta fondi sono poche, o poco visibili. Il Covid-19 non sembra più un uragano da cui mettersi in salvo per poi contare i morti e riparare i danni della distruzione, ma un diluvio destinato a fare da spartiacque tra il vecchio e il nuovo, con i suoi sommersi e i suoi salvati.

Una guerra intestina a bassa intensità, senza vincitori né vinti, accompagna perciò con un rombo sinistro l’affanno quotidiano di un paese che insegue il virus senza riuscire a fermarlo, allontanando quel sentimento di reciprocità e unità nella catastrofe che solo permetterebbe di far fronte comune contro la pandemia.

Il deficit di unità

In questo scenario, la politica è posta davanti alla sfida di tenere insieme le parti in conflitto e prevenire la lacerazione del tessuto sociale. Ma la sua risposta si perde nello spettacolo quotidiano degli scontri tra partiti e tra livelli amministrativi, del rimpallo di responsabilità, delle accuse reciproche di incompetenza e irresponsabilità. Governo, regioni, enti locali: tutti in comune disaccordo.

Il deficit di unità per la storia del nostro paese non è una novità. «Perché non siam popolo, perché siam divisi», recita l’inno nazionale.

Ora, di fronte alla gravità del momento, il presidente Sergio Mattarella ha invocato un impegno comune, invitato ad abbandonare le partigianerie e a unire le forze. Ma per tenere stretto il vincolo sociale servono risposte vere, a brevissimo, breve e lungo termine.

L’Italia che soffre di più ha bisogno di risposte: ora. Si dovrà poi passare da politiche solo distributive a politiche redistributive, per colpire però non i dipendenti che hanno come unica colpa quella di non aver perso il lavoro (in base alla logica “mal comune mezzo gaudio”), ma le vere sperequazioni di ricchezza del paese. Infine, servirà legare il presente al futuro, con una progettualità di lungo corso e un nuovo welfare che affronti di petto le diseguaglianze.

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