Giuseppe Conte pare aver frainteso la natura del suo ruolo: è il presidente del Consiglio dei ministri, non un commissario straordinario onnipotente, e i 209 miliardi in arrivo dall’Unione europea servono alla next generation, la prossima generazione, non a consolidare il suo potere. Il Consiglio dei ministri di ieri è stato interrotto dalla notizia della positività della ministra Luciana Lamorgese al Covid (auguri di pronta guarigione), meglio cogliere questa pausa per riflettere sulle informazioni che abbiamo.

Primo: ci sono dei piani per spendere il cosiddetto Recovery Fund decisi non si sa bene come, visto che anche alcuni ministri si dicono all’oscuro. Il piano per spendere il Recovery Fund equivale a un programma di un nuovo governo, però di un governo che nessuno ha scelto e al quale, almeno per ora, il parlamento non ha mai dato una fiducia esplicita.

Secondo punto critico: come verranno gestiti questi soldi. La bozza del Dpcm entrata ieri in Consiglio dei ministri indica un’ambizione senza precedenti di concentrare a palazzo Chigi un potere assoluto e discrezionale. Conte, assieme a un paio di ministri, potrebbe nominare manager che a loro volta potrebbero assumere funzionari senza concorsi pubblici e senza tetto agli stipendi per agire in deroga a tutte le leggi nazionali, tranne quelle antimafia e – bontà loro – il codice penale. Non ci sono ricorsi possibili contro i super manager, ma neppure un  modo di valutarli, premiarli o sanzionarli, perché non hanno i limiti dei tecnici (che rispondono a un politico) e neanche quelli dei politici (che rispondono agli elettori).

Dopo mesi di trattative segrete o quantomeno discrete, Conte porta in Consiglio questa richiesta di costruire un governo personale e parallelo, libero dal controllo del parlamento e anche da quello del Quirinale, alla vigilia della sua prima prova parlamentare. Un voto irrilevante nel merito, ma trasformato in una specie di questione di fiducia sulla sopravvivenza del governo dalle dinamiche interne ai partiti: mercoledì si vota la risoluzione sulla linea dell’Italia al prossimo Consiglio europeo che deve ratificare una riforma del fondo salva stati Mes già approvata dall’Italia in più occasioni. Gli scontri interni ai Cinque stelle e al centrodestra hanno trasformato il passaggio da formale in decisivo.

Proprio in questo momento Conte avanza questa richiesta di poteri assoluti, come un giocatore di poker che sente di essere arrivato alla mano più importante della serata e punta tutto quello che gli è rimasto sul tavolo. Se mercoledì Conte vince, cioè se nei parlamentari prevale il timore delle elezioni e la sua maggioranza si dimostra compatta, avrà quei “pieni poteri” che Matteo Salvini aveva soltanto sognato. Non per tormentare poveri migranti salvati in mare, ma per gestire il più colossale flusso di denaro pubblico dai tempi del piano Marshall. Se perde, Conte rimarrà quello che aveva provato a spingere l’Italia verso il decisionismo e la crescita ed è stato abbattuto dalla miopia dei vecchi partiti: credenziali per tentare una nuova rinascita, per competere nella corsa per il Quirinale nel 2022. O per fare la fine di Matteo Renzi.

Il parlamento, e anche gli italiani, già una volta hanno dato un messaggio chiaro a chi ha chiesto “pieni poteri”. Provare a rompere i limiti della democrazia parlamentare è pericoloso per tutti, anche per chi si considera abbastanza forte da poter comandare da solo.

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