Ci sono due modi di leggere il lungo intervento di Giuseppe Conte. Il primo è prendere alla lettera quello che dice, basta applicare il buon senso e la crisi si risolve: Beppe Grillo, fondatore e garante del Movimento Cinque stelle, gli ha chiesto di aiutare in una fase difficile, di risolvere problemi strutturali del non-partito che ha bisogno di diventare un partito contemporaneo, dinamico ma solido. Conte si è messo a disposizione, ha preso il mandato alla lettera e ci ha provato, la sua proposta è pronta e conosciuta a Grillo.

Ora spetta al garante decidere che fare e alla base del Movimento pronunciarsi, come è sempre successo (sorvoliamo per un attimo sul fatto che i quesiti sulla piattaforma Rousseau incorporavano la risposta).

C’è però anche un altro modo di leggere il discorso di Conte: tutto è già successo, Conte ci ha provato e ha fallito, la situazione non è più recuperabile.

La conta tra gli iscritti avverrà soltanto se Grillo deciderà di autorizzarla, lo scenario è ancora quella della monarchia assoluta che elargisce concessioni, c’è il governo degli uomini – di uno, nello specifico, Grillo – e non delle leggi. La volontà del capo supremo non è appellabile.

Qualora lo scenario prefigurato da Conte dovesse realizzarsi, sarebbe soltanto una declinazione della volontà di Grillo, non un esito della volontà della base.

La legittimità, per dirlo con il linguaggio della filosofia politica, risiede ancora nel sovrano assoluto che è tale per investitura divina, non per una concessione del popolo che, all’interno dei Cinque stelle, viene consultato ma non è il detentore della sovranità.  

Se le cose stanno così, allora l’appello di Conte è in realtà una presa d’atto della propria irrilevanza. A prescindere dalle qualità personali dell’ex premier, in questo caso ciò che conta è che si è stabilito una volta per tutte chi comanda: Grillo.

Il leader disarmato

Conte non ha la possibilità di imporre il proprio approccio di democrazia interna perché non c’è altra autorità a cui rivolgersi se non il fondatore stesso.

Tutto il resto, i probiviri, il team Futuro, i gruppi parlamentari, i tanti livelli gerarchici annunciati negli anni e poi subito dimenticati sono una finzione che maschera l’essenza dei Cinque stelle: si sono sempre chiamati Movimento, ma sono sempre stati un partito personale.

Un capriccio di un comico forse annoiato che è quasi diventato rivoluzione grazie ai tanti che hanno partecipato, ma che nella sua struttura istituzionale resta quasi una proprietà privata, non troppo dissimile da Forza Italia.

Nel partito di Silvio Berlusconi non si è mai tenuto un solo congresso in 27 anni, in quello di Beppe Grillo ce n’è stato uno – gli Stati generali del 2020 – che non hanno prodotto alcun risultato perché il capo politico è tale per investitura dall’alto, non dal basso.

Esiste ovviamente la possibilità che Beppe Grillo abbia un sussulto di lungimiranza e decida di ribaltare quanto ha rumorosamente espresso negli ultimi giorni, che si faccia da parte – questa volta definitivamente – e permetta a Conte di perseguire una elezione a capo politico molto novecentesca, anche se non competitiva (Conte contempla successori ma non avversari).

Il potere di Grillo è tanto assoluto quanto revocabile, se Grillo cedesse alla richiesta di Conte e legittimasse un percorso di selezione del capo politico che non prevede più per il garante alcun ruolo, allora la trasformazione sarebbe compiuta e radicale.

Può succedere, certo, ma non è ben chiaro perché dovrebbe essere più facile ora, dopo una sfida pubblica, che nelle tante riunioni più discrete degli ultimi mesi.

L’ultima parola al sovrano

Conte è un leader potenziale disarmato: non è in parlamento, non controlla deputati e senatori, se esce sconfitto dallo scontro con Grillo non sarà lui a fare le liste e il suo consenso è trasversale tra i partiti, ma non assoluto dentro i Cinque stelle, partito dal quale ha preso più volte le distanze quando gli era tatticamente utile, durante gli anni di governo.

Anche l’ipotesi – smentita da Conte – di creare un partito parallelo al Movimento pare poco credibile, dunque poco minacciosa: Conte non ha risorse, non ha esperienza, potrebbe al massimo far male ai Cinque stelle, ma non sopravanzarli.

I tentativi di Matteo Renzi con Italia viva e di Carlo Calenda con Azione, almeno per ora, invitano a una certa prudenza nel pensare di sottrarre voti in tempi rapidi alle forze più affermate.

Tocca quindi a Beppe Grillo decidere se abdicare o chiudersi nel palazzo assediato per un ultimo, definitivo, “vaffanculo” da urlare questa volta ai suoi: io vi ho creato e io vi distruggo. La storia è piena di sovrani illuminati che hanno anteposto il bene della nazione a quello personale.

Ma Beppe Grillo soltanto pochi mesi fa non ha esitato a usare il suo peso politico per cercare di interferire con le indagini sul figlio accusato di stupro, poi  ha fatto visita all’ambasciatore cinese nel pieno di un G7 anti-Cina, difficile immaginarlo ora scegliere spontaneamente la via dell’esilio.

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