Come uscirà il Pd da questa crisi? Rafforzato se tiene il punto dimostrando di avere una strategia precisa e una parola sola: Giuseppe Conte o elezioni. Indebolito se si acconcia ad altre soluzioni che prevedano governi con il ritorno, da trionfatore, di Matteo Renzi, o che imbarchino la destra meno estremista di Forza Italia, fino ad una ipotetica e lunare unità nazionale con tutti dentro a sostegno di un qualche tecnico.

La stragrande maggioranza dei commentatori di quotidiani e di talk show propendono per quest’ultimo tipo di soluzioni non (solo) per ostilità nei confronti del Pd quanto per un malriposto convincimento che più siamo al governo e meglio funzioniamo.

In realtà le coalizioni “sovrabbondanti”, dove cioè si imbarcano quanti più partiti possibile, non danno risultati migliori di quelle “minime vincenti”, dove ci si accontenta del numero minimo dei partiti pur di avere la maggioranza. E per maggioranza non si intende solo la maggioranza assoluta dei seggi, totem venerato ossessivamente in questi giorni, bensì una quota di seggi sufficiente a reggere alla sfiducia.

Senza stampelle

Un governo legittimato dal voto di fiducia, come è oggi quello presieduto da Conte, non ha bisogno di riconferme tutti i giorni. Per abbatterlo devono mettersi d’accordo tutti gli oppositori e sfiduciarlo palesemente. Quindi l’attuale esecutivo può reggere senza tante stampelle improvvisate e raccogliticce perché, paradossalmente, la sua vita è garantita da Italia viva: finché Renzi e compagni non si uniscono a Matteo Salvini e Giorgia Meloni per votare contro Conte, il governo è salvo. Solo con un clamoroso passaggio di fronte a destra di coloro che vennero eletti nelle file del Pd si può rovesciare l’esecutivo. È una scelta che potrebbe essere adottata tra qualche giorno quando si voterà sulla prescrizione, uno di quei temi che hanno una rilevanza nel palazzo inversamente proporzionale alle preoccupazioni dei cittadini, e anche alle loro preferenze.

Qualora i voti di Italia viva fossero determinanti per la sconfitta del governo, Renzi avrebbe raggiunto il suo obiettivo, anche se il costo in termini di moralità politica sarebbe alto: non potrebbe più aprir bocca contro chi passa da uno schieramento all’altro.

Eppure il Pd è tentato dalle sirene del rimanere al governo a ogni costo, in qualunque maniera si riconfiguri. A livello nobile questa propensione riflette il richiamo alla responsabilità in un partito che ormai ha il marchio, per dirla con una espressione inglese, del “partito naturale di governo”.

Su un piano diverso premono le ambizioni e le aspettative di benefici. Questa pulsione governista può causare danni devastanti nel Pd, come già li creò a Pier Luigi Bersani nel 2011 quando appoggiò il governo Monti. Accettare di rinegoziare la sua presenza al governo abbandonando il presidente del Consiglio, non solo proietta l’immagine di un partito per tutte le stagioni, abbarbicato sempre e comunque al “potere”, e incapace di mantenere a barra diritta sulle sue decisioni: ancor peggio gli chiude gli orizzonti futuri.

Se la strategia della leadership è quella di mantenere, e anzi rafforzare, un legame con i Cinque stelle per presentarsi come blocco alternativo alle destre, allora non può creare le condizioni per una spaccatura con i pentastellati e /o una operazione di disturbo, una lista autonoma, attivata dallo stesso Conte.

Il Pd, anche suo malgrado e con molte resistenze, alla fine ha trovato una linea strategica: il disastro a cui l’ha portato la gestione Renzi, riducendolo alle ultime elezioni del 2018 al 18 per cento e all’isolamento politico, è stato faticosamente superato in quest’ultimo anno e mezzo.

Fuori dal palazzo

L’alleanza con i partner di governo ha il suo punto di equilibrio nel presidente del Consiglio e per questo va difeso a oltranza. Questa ipotesi fa storcere il naso a tanta parte dell’élite economico-mediatica.

Il Pd è (troppo) sensibile a questo clima di opinione da “Palazzo”; dovrebbe mettersi piuttosto all’ascolto dei suoi sostenitori nei territori, e soprattutto di quella componente popolare che in parte è andata a destra per rabbia, quasi per dispetto, come è accaduto in tutta Europa, in parte si è allontanata dalla politica e si astiene. Questa componente non segue i dibattiti sull’ultima paroletta di questo o quello, ma si affida a qualche elemento semplificatorio che li orienti: uno di questi è la simpatia/stima/fiducia nelle persone.

Per questo Conte costituisce una risorsa per attrarre settori sociali che oggi sfuggono al Pd. Un grande partito non può limitarsi ai consensi delle Ztl delle grandi città: deve rompere quel soffitto di cristallo che lo separa dai ceti popolari e che si è costruito esso stesso negli anni, anche prima di Renzi.

La fiducia di più di metà degli italiani nel presidente del Consiglio costituisce una base d’appoggio su cui il Pd può riattivare i suoi legami perduti con quegli strati popolari che si vedevano nei raduni del vecchio Pci e della vecchia Dc.

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