Nadia Urbinati, sulle pagine di questo giornale, ha suggerito un rovesciamento convincente: massimalista è il governo, non l’opposizione. Non sono un fan di Elly Schlein. Confesso tuttavia di essere impressionato dal coro di larga parte dei media che di sicuro non sono prodighi non dico di giudizi generosi ma neppure di un minimo di comprensione per l’ardua impresa affidata alla neo segretaria del Pd.

Eppure basterebbe un po’ di memoria:

a) della condizione agonica cui era ridotto solo pochi mesi fa il partito;

b) della paralizzante condizione di ostaggio cui lo avevano condannato le sue correnti (più esattamente cordate personali di un ceto politico obeso);

c) di un governismo, cioè di uno schiacciamento sull’establishment che aveva contribuito a recidere la sua connessione sentimentale con il popolo della sinistra;

d) della circostanza che, già prima di Schlein, il Pd aveva governato con Giuseppe Conte e che tuttora nessuno si spinge a sostenere che si possa prescindere da un rapporto con il M5s.

Il mantra polemico all’indirizzo della segretaria Pd fa perno sull’accusa di mortificare il pluralismo delle sensibilità e delle culture interne. Un appunto generico che andrebbe circostanziato.

Mi si permetta qualche osservazione in controtendenza. Proprio la componente liberal, che un tempo faceva capo a Walter Veltroni, oggi tanto critica, era la più determinata nel propugnare una forma partito (e uno statuto) imperniata su primarie aperte a elettori e simpatizzanti che conferissero una chiara primazia al leader designato al punto da farlo coincidere con il proprio candidato premier.

Ora a Schlein si contesta di esercitare la leadership. Taluni le rimproverano di avere riconsegnato il Pd alla vecchia “ditta” Pci-Pds-Ds. Curiosamente e contraddittoriamente, altri, esattamente i più diretti eredi della “ditta”, le imputano proprio il contrario. Cioè una vena movimentista, il deficit di una cultura del partito.

Non è un mistero che, da quel fronte, il sostegno alla candidatura di Schlein sia stato tardivo, limitato, incerto. Solo perché non disponevano di candidati competitivi. Come conferma la recente, infelice uscita di Nicola Zingaretti e, di più, la singolare corsa distinta e alternativa dentro le primarie di un uomo di partito della sinistra ex Ds come Gianni Cuperlo. Che, nel voto degli gli iscritti, ha sottratto consensi “di sinistra” che sarebbero andati naturalmente a Schlein.

Ancora, si enfatizza il disagio dei “cattolici” (virgolette d’obbligo). Regredendo, diciamo così, due volte alla distorsione e all’equivoco di fare dell’appartenenza cattolica una categoria politica. Magari confondendo i cattolici con i nostalgici del moderatismo democristiano alla Giuseppe Fioroni.

Un solo esempio: mi sorprende Graziano Delrio, che immodestamente dichiara di intestarsi il punto di vista critico dei cattolici (quali?). La sua spiccata sensibilità sociale e pacifista cui suppongo non sia estranea una ispirazione cristiana dovrebbe semmai condurre ad apprezzare la novità impressa da Schlein su issues tanto qualificanti. Basterebbe evocare il magistero di papa Francesco su giustizia, pace, immigrazione, tutela del creato.

Sono solo tre esempi tesi a rimarcare quanto sia difficile l’impresa della segretaria Pd e quanto ingeneroso se non pregiudiziale e strumentale sia l’assedio mediatico e politico (anche interno) di cui è fatta oggetto.

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