Il Covid-19, come sappiamo, è una malattia infettiva causata da un virus chiamato Sars-CoV-2, un coronavirus “nuovo” ma molto simile a quello che causò la prima Sars (Severe acute respiratory syndrome) nel 2003, anch’esso di origine zoonotica – viene cioè trasmesso dagli animali agli esseri umani – e, nonostante abbia una mortalità inferiore a quella della Sars, risulta di più facile diffusione.

La pandemia di Covid-19 non sarà facile da domare e resterà con noi per molto tempo, non solo per la trasmissibilità ma anche per la difficile tracciabilità del virus. E se tutti paion darsi da fare per circoscriverla e limitarne la diffusione – e ora siamo tutti stati edotti della necessità di portare maschere protettive, evitare i contatti e lavarci le mani, adempiendo altresì alle misure di contenimento e confinamento domestico imposteci e prestando ascolto ai molti esperti chiamati nelle pubbliche arene a fornire opinioni informate – è anche vero, però, che nessuno ha ancora ammesso che questo stato di cose è destinato a protrarsi ad libitum e che nulla ci assicura che tutto ciò avrà presto una fine. Come peraltro già avvertivano, e da diversi anni, molti studi, per lo più ignorati dalla politica. Perché questa malattia infettiva chiamata Covid-19, fino a oggi sconosciuta, è solo una delle tante che potevano affliggerci e molte altre sono lì in incubazione.

Come mai tutto questo sta accadendo? Era possibile evitare che tutto ciò succedesse? Stiamo facendo qualcosa perché non accada più? Queste domande non riguardano solo lo stretto dominio dei virologi, della medicina o della scienza più in generale, ma ci riguardano tutti perché hanno a che fare con l’economia e l’ecologia e, in definitiva, con il nostro rapporto col mondo. È una questione di ecologia politica.

Le malattie infettive sono state una costante della storia dell’umanità. Se è stato possibile debellare ognuna di loro – almeno le più note e ferali – è stato grazie all’azione congiunta della conoscenza scientifica e del miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie. Le malattie infettive, cioè trasmissibili, erano la principale causa di morte nel passato perché molte delle cause della trasmissione non erano note. Fino a pochi anni fa, grazie ai citati fattori di miglioramento, queste malattie sono diminuite fino a essere la causa solo del 5 per cento dei decessi (nei paesi avanzati), e del 25 per cento a livello mondiale (soprattutto per il peso che avevano in talune aree del mondo e includendo malaria, tubercolosi e Hiv tra di esse).

Malattie infettive emergenti

Ma già oggi e nel prossimo futuro le cose potrebbero ulteriormente peggiorare: sono infatti le malattie infettive emergenti (Mie) che, secondo l’Oms, dovranno preoccuparci. Di esse non sappiamo nulla e sono per questo classificate in una categoria a sé. Per loro saranno necessari nuovi protocolli sanitari, cure e vaccini. Secondo lo statunitense National Institute of Allergy and Infectious Diseases, le Mie sono oggi più di 300 e rappresentano il 12 per cento tra tutti i possibili patogeni umani. Ciò che appare allarmante è che le Mie si sono sviluppate soprattutto negli ultimi vent’anni e sono per lo più di origine zoonotica (com’erano la rabbia, la peste o la salmonella, mentre la malaria o la tubercolosi, ad esempio, sono antroponotiche).

Tuttavia, il problema – ed è per questo che è una questione di economia/ecologia politica – non è che vi siano nuovi patogeni (ne sono sempre esistiti) ma che questi appaiono generati da cambiamenti ambientali negli ecosistemi. Tutte le patologie più gravi che sono apparse nell’ultimo ventennio, dalla Sars all’influenza suina, dalla Mers all’influenza aviaria, al Covid-19, e tutte le varianti di coronavirus (oggi sappiamo che ve ne fu uno anche all’origine dell’influenza “spagnola”) sembrano essere di origine zoonotica con cause ambientali.

L’influenza suina si è sviluppata già dove si diffuse inizialmente la Sars, nella provincia cinese del Guangdong dove diffusi erano gli allevamenti. Già nel 2017 emerse come i pipistrelli fossero la «riserva animale esistente più vasta di coronavirus di vario tipo» e che da quei mammiferi volatili si trasmettessero ai maiali. Furono ricercatori cinesi – tra cui Zengli Shi, ricercatrice principale dell’Istituto di virologia del Wuhan, che poi sarà tra coloro che individueranno il virus del Covid-19 – a segnalare sulle riviste internazionali che la presenza di enormi concentrazioni di animali d’allevamento stesse alterando le nicchie e gli habitat vitali dei pipistrelli, evidenziando così l’alto potenziale infettivo per gli esseri umani delle influenze suine. L’allevamento industriale stava già alterando l’interazione tra zone antropizzate, animali d’allevamento e fauna selvatica.

Va detto che già nel 2004 uno studio congiunto di Fao, Organizzazione mondiale della salute animale e Oms aveva avvertito che l’allevamento intensivo in mega impianti avrebbe favorito la mutazione e la diffusione di nuovi agenti patogeni zoonotici (studio a cui ne sono seguiti altri, tutti suonando l’allarme su tali forme di produzione). Sui danni dei mega impianti di allevamento – concentrati per lo più in Cina e Australia, ma presenti anche negli Usa e in Europa – sia per l’agricoltura (necessità di rifornimenti crescenti di mangimi vegetali, per i quali la deforestazione e la messa a coltura di nuovi terreni sono necessari, ma anche scomparsa delle forme di agricoltura tradizionale) che per l’ambiente (emissione di gas) e per la salute, gli studi si moltiplicano ormai da anni.

Le mutazioni virali

Gli impianti affollati da centinaia di migliaia di animali divengono “laboratori” concentrati di mutazioni virali e il passo verso la generazione di nuovi agenti patogeni per gli umani è quindi brevissimo. È un modello distorto di produzione di massa – necessaria, si dice, per soddisfare la domanda di milioni di esseri umani, ma né di qualità né “a km zero” – ma concentrata in poche aziende e in cui la popolazione animale mondiale è oggi tre volte quella umana (e noi non siamo certo pochi).

Oggi sappiamo che non avremmo mai avuto l’influenza, il vaiolo e il morbillo se non avessimo mai allevato animali. E sono le condizioni in cui questi animali vengono allevati che, oggi, causano la moltiplicazione degli agenti patogeni. Secondo gli studi, ben trenta agenti virali pericolosi sono stati sviluppati nell’ultimo ventennio (e solo alcuni hanno causato danni, come il virus del Covid-19) e solo per caso la loro azione non si è sempre trasmessa agli umani.

Già nel 2016, il biologo Robert Wallace, nel suo libro Big farms make big flu, ci aveva raccontato cosa sta succedendo. E oggi, l’attenzione di tutti è su come contenere la pandemia. Nessuno, però, né tra gli “esperti” dei talk-show né tra i decisori politici, sembra preoccuparsi di andare alle origini della pandemia, aggredendone le cause strutturali. Il nuovo coronavirus non è un fenomeno isolato e altri ne possono insorgere, persino più letali.

Le grandi corporation la cui produzione si basa sulle mega farm hanno messo in conto anche le epidemie come “un’esternalità” la cui eventualità va tenuta presente, ma non certo per alterare il loro modello di sviluppo. Una pandemia in più o in meno è solo un problema di costo, un rischio che, dati i profitti correnti, può valere di essere corso. Chiaramente, non è questione, come oggi rudemente si sente dire, se conta più l’economia o la salute. Se il rischio epidemico è intrinseco al modello di sviluppo, allora rendiamolo interno alla contabilità delle aziende! Perché mai deve essere solo un’esternalità che paga il sistema, quando i profitti vanno solo da una parte? Cambiamo modello, se non vogliamo condividere anche i profitti, e non solo i costi, che forse vivremo tutti meglio, mangiando meglio e con meno virus da cui proteggerci.

Il francese Frédéric Neyrat, filosofo, nel suo Biopolitique des catastrophes del 2008, già affermava che il nostro modo di far fronte al rischio non questiona mai le sue cause economiche originarie, ma non è così che stiamo rispondendo alla pandemia? L’economia e l’ecologia politica della pandemia corrente sono chiare e questa era prevedibile, anzi annunciata.

Le nostre abitudini alimentari distorte e il nostro modo di produzione, per cui la grande azienda è meglio della piccola fattoria, ci hanno reso ciechi, e a questo va aggiunto un approccio alla malattia che predilige la cura sulla prevenzione. Ma il capitalismo liberista, e si scusi qui l’epiteto banale, non è uno stato di natura, per chi dice che «il coronavirus è una vendetta della natura». Non siamo “in guerra con il coronavirus”, perché è la natura, che noi abbiamo alterato pur facendone parte, che è in guerra con noi.

© Riproduzione riservata